sabato 31 luglio 2010

Il Sole


Tokyo, 1945: in un paese martoriato dalle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale, l'imperatore Hiroito (Issei Ogata), venerato dal suo popolo come una divinità, deve far fronte alla disfatta militare. Quando le Forze Alleate arrivano fin al suo rifugio, viene condotto al cospetto del generale MacArthur (Robert Dowson) e, su invito di questi, accetta di registrare un comunicato per la nazione in cui annunciare la resa e la rinuncia alla propria natura divina.
Dopo Moloch (incentrato su Hitler) e Taurus (su Lenin), Sokurov ha scelto come protagonista del terzo capitolo della quadrilogia del potere l'imperatore Hiroito, alla guida del Giappone per oltre sessant'anni. Come nei casi precedenti, ciò che preme al cineasta russo non è tanto analizzare le dinamiche del potere oppure le premesse e le conseguenze storiche dell'operato di Hiroito, quanto mostrarne la fragilità umana ed il contrasto fra questa ed il ruolo supremo che si trova a rivestire, tanto più netto per la presunta discendenza divina dell'imperatore. Il ritratto che ne deriva è quello di un uomo solo, un po' infantile, tormentato dai tic ed assorbito da insignificanti passioni (la biologia marina), pudicamente tenero negli affetti (di grande dolcezza la sequenza dell'incontro con la moglie), buffo agli occhi di occidentali troppo distanti culturalmente (i fotografi che lo paragonano irriverentemente a Charlot) per coglierne la dignità del contegno e le sfumature più malinconiche. L'Hiroito di Sokurov è uomo tormentato dal peso della responsabilità morale per la catastrofe in cui ha condotto il proprio paese (Hiroshima e Nagasaki sono già storia) e schiavo della condizione di Dio a cui la tradizione lo costringe, impedendogli di vivere autenticamente la propria umanità e costringendolo ad ostentare perfezione e sublimità anche laddove è irreparabilmente mediocre (nella poesia, per esempio). La rinuncia alla natura divina, a quella diversità che assomiglia più ad una condanna che ad un privilegio, non è quindi vissuta come onta, ma come atto di liberazione interiore.
Se la finezza della caratterizzazione psicologica è già nota di merito, la grandezza del cinema di Sokurov è soprattutto nella complessità stilistica ed estetica, nella continua ricerca di un linguaggio originale (fondato su scelte antispettacolari e ritmi riflessivi, ma anche note sarcastiche) e di una dimensione alta, spirituale. Ne Il Sole tale ricerca conduce a risultati notevoli, contribuendo a creare (anche grazie ai toni freddamente grigi della fotografia) un'atmosfera decadente, di disfacimento e di morte che riproduce, senza artifici retorici, la cupezza del clima storico.



Regia: Aleksandr Sokurov
Anno: 2005



Giudizio: ****

domenica 25 luglio 2010

Il Pianista



Varsavia, 1939-1945: un pianista ebreo (Adrien Brody) vive le atrocità del nazismo, dalle prime leggi antisemite, fino alla segregazione nel ghetto, l'interdizione dal lavoro, la povertà, l'inedia, la deportazione dei familiari. Scampato ai campi di concentramento, vive segretamente nascosto grazie alla complicità di vecchi conoscenti, ma continuamente costretto alla fuga, si ritrova a vagare solo ed affamato per le rovine della città distrutta dai combattimenti, sopravvivendo grazie all'aiuto di un soldato tedesco.
Per Roman Polanski (polacco ebreo che ha conosciuto nell'infanzia la realtà del ghetto ed ha perso la madre ad Auschwitz) le memorie del pianista Wadislaw Szpilman, raccolte nel romanzo che ha dato nome anche al film, hanno offerto la possibilità di dirigere un film intensamente autobiografico, crudele nel mostrare, senza mediazioni, gli orrori dell'occupazione nazista (pur non rappresentandone il lato concentrazionario). Onesto nell'evitare semplificazioni manichee, Polanski è consapevole che il Male non è solo nella ferocia degli aguzzini tedeschi, ma anche nell'ipocrisa dei collaborazionisti e nella miseria morale di chi ha speculato sulla tragedia, così come il Bene si incarna tanto nell'eroismo dei resistenti, quanto nel coraggio dei protettori di Wadislaw e nell'umanità dell'ufficiale nazista. Se la prima parte del film è soprattutto spietata nel mostrare l'umiliazione, la persecuzione, la violenza e la morte, la seconda ha carattere più apocalittico (e più riferimenti alla condizione di Polanski), è l'odissea di un uomo solo, braccato, intrappolato in rifugi claustrofobici, allo sbando nella Varsavia fantasma ridotta in macerie dai bombardamenti, in totale balia di "un mondo di assurdità kafkiana" (Dizionario dei Film Morandini).
C'è anche un inno alla musica (ed all'arte per estensione e quindi al cinema), quale espressione di una forma di bellezza primigenia, superiore ed inconsapevole delle brutture del mondo: il pezzo di Chopin, suonato alla radio ed interrotto dallo scoppio della guerra, viene ripreso dopo la liberazione: è la vita che, negata da anni di mostruosa follia, riprende faticosamente il suo corso.
Buon successo di pubblico e critica, Palma d'oro a Cannes e vincitore di 3 premi Oscar.



Regia: Roman Polanski
Anno: 2002


Giudizio: ***1/2

venerdì 23 luglio 2010

Il Tempo dei Cavalli Ubriachi


Kurdistan: in un villaggio iraniano, su monti sempre ricoperti di neve vicino al confine con l'Iraq, il giovanissimo Ayoub (Ayoub Ahmadi), orfano di entrambi i genitori, bada da solo al fratello ed alle tre sorelle. Si arrabatta con i lavori più umili e faticosi, incarta bicchieri, raccoglie la legna, fa il mulattiere. Oltre a sfamarli e pagare gli studi alla sorella minore Amaneh (Amaneh Ekhtiar-Dini), cerca di raccogliere il denaro per l'operazione del fratello Madi (Madi Ekhtiar-Dini), affetto da nanismo. Lo zio decide di concedere la mano della sorella maggiore, Rojin (Rojin Younessi), a patto che i familiari dello sposo si prendano cura anche di Madi, ma, nonostante gli accordi, all'ultimo lo rifiutano. Ayoub decide allora di partire con Madi alle volte dell'Iraq, per vendere il suo mulo e trovare così la somma necessaria.
A metà strada fra il documentario ed il film drammatico, il lungometraggio di esordio di Ghobadi raccoglie ricordi dell'infanzia del regista, tempo che poeticamente chiama "dei cavalli ubriachi", alludendo alla pratica di versare liquori nell'acqua delle bestie da soma, per renderle più resistenti al freddo. La vicenda del tenerissimo Madi, deforme nel suo minuscolo corpo, condannato da una malattia senza scampo, rifiutato da tutti perchè debole e inutile (ma non dal fratello e le sorelle, che lo accudiscono con amore) è chiara metafora dell'odissea della popolazione curda, il più grande gruppo etnico al mondo senza patria, segnata da una storia interminabile di persecuzioni ed oppressione. E' anche un racconto di infanzie negate, di bambini divenuti adulti troppo in fretta, gravati come sono dal peso di un'esistenza insopportabile, così come schiacciati da immani carichi sono i muli che Ghodabi mostra a più riprese, immersi in una natura fredda ed ostile, anche qui con intento volutamente simbolico. Il finale lascia aperta la porta alla speranza di un futuro migliore, benché incerto. Tecnicamente, il talento della regia si esprime nella precisione delle inquadrature e dei movimenti di macchina, nella sensibilità dei contrasi cromatici della fotografia (fra il candore onnipresente della neve ed i colori accesi di abiti e finimenti, specialmente il giallo sgargiante della giacca di Madi). E' però evidente la pochezza dei mezzi a disposizione e non si può non cogliere una certa approssimazione nella recitazione degli attori.
Premiato a Cannes.

Nasce dalla dialettica tra documentarismo crudo e raffinatezza figurativa e raggiunge una dimensione tragica che fa star male. (Dizionario dei Film Morandini)


Regia: Bahman Ghobadi
Anno: 2000


Giudizio: ***

martedì 20 luglio 2010

Parla Con Lei


Benigno (Javier Camara), cresciuto all'ombra di un morboso attaccamento alla madre, fa l'infermiere ed accudisce da anni con amorevole dedizione Alicia (Leonor Watling), aspirante ballerina in coma in seguito ad un incidente stradale. Marco (Dario Grandinetti), giornalista ed autore di guide turistiche, non riesce a lasciarsi alle spalle un matrimonio fallito, fin quando non incontra la torera Lydia (Rosario Flores), che a sua volta finisce in coma, incornata durante una corrida. In ospedale Marco e Benigno stringono una sincera amicizia. Al rientro da un viaggio, Marco apprende che Benigno è in carcere per aver violentato Alicia, mettendola incinta. Durante il parto Alicia dà alla luce un feto morto, ma miracolosamente si risveglia. Benigno, che ne è tenuto all'oscuro, si suicida, mentre, in un finale aperto, fra Marco ed Alicia sembra nascere un'infatuazione.

Almodovar tocca un tema difficile, quella condizione di sospensione fra la vita e la morte che è il coma irreversibile. Ma il suo sguardo è diretto alla natura delle relazioni umane, sentimentali ma non solo, alla casualità con cui si innescano, all'imprevedibilità delle traiettorie che assumono. In un film di amori che si intrecciano, si sdoppiano, nascono e finiscono in un costante equilibrio instabile, senza però mai essere veramente felici, domina un'atmosfera di soffusa tristezza e malinconica solitudine. Dinanzi alle scelte di personaggi in balia del destino, Almodovar sospende il giudizio morale, si limita a mostare la complessità del vivere ("Niente è semplice" dice a Marco l'insegnante di danza di Alicia) e lascia aperta la via ad un ottimismo, più del cuore che della ragione, in un finale in cui la morte (di Benigno, di Lydia) diviene precondizione per la rinascita (della vita spezzata di Alicia, dell'amore), mentre l'eterno ciclo delle umane vicende fa il suo corso. La vena umoristica (in alcuni momenti causticamente anticlericale) che attraversa tutto il film non disturba, anzi ne costituisce un'ulteriore, gradevole sfaccettatura. Interessanti gli spunti metacinematografici (teatro nel cinema, cinema nel cinema), specialmente l'inserto surreale (la proiezione del corto, muto e in bianco e nero, a sfondo erotico) con cui Almodovar allude discretamente, senza mostrarla, alla violenza compiuta da Benigno.
Sceneggiatura articolata, non perfettamente bilanciata (la vicenda di Lydia e Marco non trova tanto spazio quanto quella di Benigno e Alicia), ma comunque accattivante (e premiata con l'Oscar), al di là di qualche sottolineatura enfatica di troppo nella scrittura. Cameo di Caetano Veloso, che canta "Cucurrucucu paloma".



Regia: Pedro Almodovar
Anno: 2002



Giudizio: ***1/2

lunedì 19 luglio 2010

Redacted


Ricostruzione di un episodio della guerra in Iraq realmente accaduto: lo stupro di una quattordicenne irachena, poi uccisa assieme ai suoi familiari (padre, madre e sorellina di sei anni), da parte di un gruppo di soldati statunitensi (in seguito processati e condannati a pene severe).
In prima battuta, è una asprissima denuncia delle violenze perpretate sulla popolazione civile irachena da parte degli occupanti americani (due sequenze molto forti, quella dello stupro e successiva carneficina e l'uccisione di una donna incinta, per errore, ad un checkpoint), esplicitata nel finale per bocca di un soldato pentito, in uno dei momenti più intensi del film; è un'analisi psicologica di soldati esasperati dai rischi e dalle difficoltà di una missione infame, infarciti di retorica militaresca e pregiudizi razzisti, annebbiati dall'uso di alcool e droghe, succubi di un clima di omertà diffusa fra i ranghi dell'esercito; è la constatazione dell'incomunicabilità fra due mondi culturalmente lontani (i cenni di alt dei militari scambiati per saluti), in cui la diffidenza è l'unica via per la sopravvivenza e l'odio la naturale conseguenza di un clima avvelenato dal rancore e dalla paura.
Ma il titolo tradisce un altro livello di lettura ("redacted" è usato per indicare materiale in qualche misura alterato per renderlo pubblicabile, ad esempio cancellando nomi od oscurando volti): De Palma si interroga principalmente su che significato possa ancora avere il termine Verità nell'era dell'informazione di massa e sul complesso rapporto fra media ufficiali, da un lato, e la multiforme costellazione di fonti alternative oggi di facile accesso, dall'altro. Fedelmente alla dichiarazione di intenti che delega al suo alter-ego, il soldato-regista ("non aspettatevi un film hollywoodiano"), affida allo sperimentalismo del collage (riprese amatoriali, filmati tratti da blog, documentari, video su youtube, immagini carpite da telecamere di sorveglianza, riprese di cronisti di guerra, notiziari televisivi, registrazioni degli interrogatori, ecc.) l'espressione di punti di vista diversi, inseguendo un'oggettività che appare in ultima istanza impossibile. Mostrando come la finzione di immagini cinematografiche si confonda con la realtà al punto da disorientare lo spettatore (che di fronte alla raccapricciante carrellata di fotografie finali, stavolta autentiche, non può far a meno di notare l'indistinguibilità rispetto alle immagini precedenti), De Palma dichiara di fatto un'equivalenza fra le due ed instilla il dubbio circa la possibile falsità di cio' che siamo indotti a considerare vero e l'altrettanto possibile veridicità di ciò che siamo portati a considerare falso ed inattendibile.
Estremamente attuale e coraggioso, lascia però l'impressione che un regista che cerca forme espressive tanto estreme e fuori dagli schemi, lo faccia in realtà per mascherare una crisi artistica e di ispirazione. Comunque da vedere, tanto più alla luce delle controversie suscitate in USA (il film è stato oggetto di un'intensa quanto prevedibile campagna di boicottaggio) e del fatto che in Italia, ottusamente, nessuno abbia avuto il coraggio di distribuirlo in sala.



Regia: Brian De Palma
Anno: 2007


Giudizio: ***

domenica 18 luglio 2010

I Segreti di Brokeback Mountain


Primi anni '60, Wyoming: due giovani cowboy, Jack (Jake Gyllenhaal) ed Ennis (Heath Ledger), trovano lavoro come guardiani di un gregge di pecore. Durante la convivenza sul monte Brokeback, sono travolti dalla passione e finiscono per innamorarsi. Terminata la stagione, le loro strade si dividono, entrambi si sposano e mettono su famiglia. Ma trascorsi pochi anni, tornano a cercarsi e riprendono, benché segretamente, la loro relazione. Pur vivendo distanti ed incontrandosi solo di rado, durante brevi parentesi che si concedono sul Brokeback, il loro amore durerà vent'anni, fino alla morte di Jack.
Ispirandosi ad un racconto del premio Pulitzer Annie Proulx, Ang Lee affronta il tema dell'omosessualità (anche se, a rigore, come è stato fatto notare, i protagonisti di questo film andrebbero definiti più correttamente bisessuali) e della sua accettazione sociale e lo fa con grande immediatezza, colpendo diretto al mito virile per eccellenza del cowboy, espressione da sempre di una mentalità machista ed omofoba. Così come non è un caso che l'ambientazione sia in Wyoming e (in parte) in Texas, ovvero due fra gli stati USA più conservatori e roccaforti del Partito Repubblicano: l'accusa sottotraccia, anche se alla forza polemica della denuncia si è preferito il romanticismo di un melodramma commovente ed ispirato, è chiaramente rivolta ad una società ancora incapace di accettare la diversità degli orientamenti sessuali e considerare la loro libera espressione una forma più alta di civiltà. Fra i meriti di Lee, vi è quello di averne fatto un'appassionata storia di amore dal carattere universale, trascendente le classificazioni da cui la cultura dominante, ancora troppo legata a pregiudizi moralisti e retaggi del puritanesimo cristiano, non riesce ad affrancarsi. Approfondita e ricca di sfumature la caratterizzazione psicologica dei personaggi, con Jack più estroverso, sognatore, insofferente all'ipocrita finzione di normalità cui i due si costringono, ed Ennis invece introverso, problematico, più debole e tormentato. Brokeback Mountain è un luogo immaginario (non esiste realmente), simbolo di uno spazio utopico, un paradiso terrestre, in cui la natura incontaminata e la lontananza dalla società e dalle sue crudeli convenzioni permette una libertà assoluta, la realizzazione di sogni ed aspirazioni.
Pluripremiato (Leone d'Oro a Venezia, 3 Oscar, 5 Golden Globe), è vergognoso che in Italia ne sia stata trasmessa in TV una versione censurata di tutte le scene di sesso omosessuale (ma non eterosessuale, più esplicite): a seguito delle proteste dell'Arcigay, vi è stato un secondo passaggio televisivo, stavolta integrale, ma sempre in seconda serata.



Regia: Ang Lee
Anno: 2005


Giudizio: ***1/2

sabato 17 luglio 2010

L'Uomo che Verrà



Colli bolognesi, 1943-1944: Martina (Greta Zuccheri Montanari, talentuosa esordiente), figlia di mezzadri, è una bambina che tace dalla morte del fratellino in fasce. La madre è di nuovo incinta e lei attende la nascita del nuovo bimbo con trepidazione. Intanto, c'è la guerra: i giovani partigiani si nascondono nei boschi e tornano in paese di tanto in tanto, furtivamente, per sfamarsi o farsi medicare; i tedeschi sono una presenza lontana, che si manifesta saltuariamente per requisire vino, uova, a volte bestiame, oppure per dare la caccia ai ribelli. Fino a quando non esploderà la più tremenda delle violenze: il rastrellamento di donne, vecchi e bambini e la loro spietata esecuzione. E'una delle più grandi carneficine di civili avvenute durante la seconda Guerra Mondiale, passata alla storia come eccidio di Monte Sole (o strage di Marzabotto, dal nome di uno dei paesi coinvolti). Nel frattempo il piccolo è nato e Martina, che è riuscita coraggiosamente a metterlo in salvo, riprende a parlare.

Giorgio Diritti affronta una delle pagine più nefaste (e più occultate) della storia moderna italiana, raccontandola attraverso la quotidianità agraria di una comunità di contadini, delle sue tradizioni condivise, dei suoi riti collettivi, del suo legame con la natura, del lento alternarsi delle stagioni. La meticolisità con cui è curata la ricostruzione iconografica (nei costumi e negli ambienti) ha sapore verista (accentuato dal parlato dialettale, sottotitolato), ma va oltre, trascendendo nel lirismo pittorico dell'elegia bucolica, pur senza idealizzazioni idilliche. Nell'immutabilità di questo universo secolare, la guerra è percepita come distante, come solo l'ennesima delle tribolazioni ataviche che da sempre affrontano, giorno dopo giorno, gli stanchi abitanti di quelle colline. Ma quando, inesorabile, giunge l'appuntamento con l'assurda violenza della Storia, vanno in frantumi certezze antiche, maturate nella cornice di una religiosità popolare che improvvisamente perde senso: mentre la mitragliatrice spara, la telecamera s'innalza verso la croce sul tetto di una chiesa e poi al cielo, ponendo interrogativi che restano senza risposta, mentre chi è sopravvissuto seppellisce, assieme ai propri cari, statuette di Madonne e Santi, colpevoli di non averli saputi proteggere. Il senso della tragedia è reso con umanità e partecipazione, ma senza enfatizzazioni romanzate, scegliendo "una strada antiretorica" (Federico Pedroni, I Duellanti). Il finale è un magnifico messaggio di speranza ed impegno morale: di Martina, il cui silenzio è un urlo di caparbia protesta contro l'arbitrarietà di un fato crudele, sentiamo finalmente la voce (nella dolce melodia di un canto), mentre culla il piccolo neonato sottratto alla follia di un'umanità che ha mostrato l'abisso di atrocità di cui è capace. E'lui "l' uomo che verrà", il simbolo di un futuro che sarà libero nella misura in cui saprà far tesoro della lezione della memoria.
Tecnicamente, le soluzioni e le intuizioni di Diritti sono di sorprendente efficacia: fra le più felici la scelta del punto di vista, che è quasi sempre quello della piccola protagonista, le vicende sono quindi filtrate dal suo sguardo sognante ma attento e proiettate in un mondo fantastico, scevro da classificazioni o pregiudizi ideologici (altrimenti inevitabili per un tema delicato come la Resistenza, qui presentata con onestà, come un'urgenza civile e come rappresaglia di chi non tollera abusi ed usurpazioni), in cui ribelli e nazisti sono osservati con la stessa ingenua curiosità ed in cui "molti vogliono ammazzare qualcun altro", anche se non se ne capisce il perché. La fotografia, poi, con le sue tonalità calde e morbide, regala scorci che sembrano cartoline, mentre la telecamere a volte insegue mobile i personaggi, a volte indugia in campi lunghi e piani sequenza sobri e suggestivi.
Bellissimo, ricco, profondo, impeccabile. Ma dati i (discutibili) gusti del grande pubblico, è stato distribuito con il contagocce.


Diritti [...] riesce a regalarci una delle più belle prove di un cinema finalmente necessario, di altissimo rigore morale e insieme di appassionante e coinvolgente forza civile. Un capolavoro. (Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera)



Regia: Giorgio Diritti
Anno: 2009


Giudizio: *****

giovedì 15 luglio 2010

Il Nastro Bianco



In un villaggio rurale della Germania settentrionale, negli anni immediatamente precedenti allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, avvengono fatti misteriosi ed inquietanti: al Dottore capita uno strano incidente a cavallo, il granaio del Barone va a a fuoco, suo figlio viene ferocemente picchiato, un bimbo down viene torturato, restandone quasi accecato. Il Maestro giunge gradualmente ad intuire l'identità dei colpevoli di tali misfatti, ma il Pastore, autorità morale e religiosa della comunità, lo costringerà al silenzio.
Heneke si misura con uno degli interrogativi più angosciosi della storiografia moderna: come è stata possibile l'aberrante ascesa del nazismo ed i suoi orrori? In quest'ottica, Il Nastro Bianco è un film a tesi (ma non didascalico), preannunciata già nei primissimi minuti e poi sviluppata con coerenza e precisione: le radici dei processi che hanno tristemente segnato la storia della Germania fra le due guerre è da ricercarsi nella natura oppressiva della società tedesca (basata su rapporti sociali e familiari rigidamente gerarchici, cinici, immorali) del primo Novecento ed in particolare in un sistema educativo coercitivo e brutale, che ha formato generazioni represse e tormentate dal senso di colpa, succubi dell'autorità e rabbiosamente intransigenti nei confronti delle devianze dalla normalità ipocrita dell'ideologia cristiano-borghese a cui sono state, da sempre, catechizzate. Più in generale, l'astrattezza senza tempo del villaggio (un microcosmo chiuso in se stesso, decontestualizzato) e la scelta di impostare la narrazione come fosse una favola "nera" (con il commento fuori campo della voce narrante del Maestro) attribuiscono una dimensione più universale alla riflessione, estendendola ai meccanismi di genesi di tutti i regimi autoritari ed integralisti.
Al di là della tematica impegnativa, la firma d'autore è soprattutto nel rigore formale, nella regia controllata, nel freddo bianco e nero scelto da Heneke più per ragioni espressive (distanziare lo spettatore, evitando rassicuranti meccanismi di immedisimazione) che di verosimiglianza storica, nelle geometrie anguste degli interni che, assieme all'atmosfera cupa ed irrazionale di impotente attesa dinanzi al nefasto precipitare degli eventi, costruiscono una cappa opprimente che sembra gravare su adulti e bambini, incubando una carica di pulsioni aggressive, pronte ad esplodere in tutta la loro virulenza. Ottima prova corale degli attori. Palma d'Oro a Cannes.



Regia: Michael Heneke
Anno: 2009


Giudizio: ****

martedì 13 luglio 2010

Vincere



La vicenda di Ida (Giovanna Mezzogiorno) e Benito Albino Dalser, la prima amante (e forse prima moglie) di Benito Mussolini (Filippo Timi), il secondo figlio nato dalla loro relazione. Nella prima parte si raccontano l'amore di Ida, la passione ed il carisma di Mussolini, i suoi repentini cambiamenti di rotta in politica (prima pacifista, poi interventista, prima socialista, poi futurista) e la sua vertiginosa ascesa (ricostruita attraverso veri filmati e cinegiornali dell'epoca, alla maniera dei docu-film). Nella seconda, il tempo dei sogni e delle speranze volge al termine: l'Italia sprofonda nell'abisso della dittatura fascista, Mussolini è ormai il Duce, Ida e Benito Albino solo fardelli di un passato scomodo che va rinnegato, ripudiato fino alla crudeltà estrema della prigionia in manicomio, dove resteranno entrambi rinchiusi fino alla morte.
Bellocchio, da sempre regista impegnato, conduce, illustrando l'odissea ed il dramma privato di una donna e di suo figlio (o, seguendo una possibile lettura trinitaria, di una Madonna e di Suo Figlio, alle cui sofferenze, preghiere e disperato bisogno d'essere amati resta sordo ed indifferente un Padre Onnipotente ed Onnipresente, eppure tremendamente distante) un discorso politico (rigorosamente antifascista), che assurge a monito universale (e volutamente attuale) sul tema del potere, sulle dinamiche di dominio, sottomissione ed esclusione che sottende, sulle diverse forme di violenza (fisica, psicologica) che gli sono connaturate. La figura di Ida Dalser è un simbolo potente, è la Libertà, la Ragione e la Verità nell'epoca delle minacce e delle paure, delle violenze e della viltà, dei compromessi e delle menzogne, "il tempo del silenzio, il tempo degli attori" (come teorizza, con raggelante lucidità, un medico psichiatra).
Se si apprezzano l'originalità della commistione di generi (documentario, storico, drammatico), l'intepretazione della Mezzogiorno stupendamente coinvolgente, una fotografia che sa essere livida e cupa come i tempi che raffigura, la tensione stilistica di indubbio spessore, i momenti di grande cinema (la sequenza in cui Ida, arrampicata sulle sbarre, lancia nel vuoto le sue lettere mentre scende soffice la neve o quelle in cui Benito Albino, ormai uomo, scimmiotta grottescamente la mimica paterna), resta però l'impressione di una certa fatica nella sintesi, di ellissi troppo sbrigative (specialmente nella prima parte in cui emerge un ritratto del Duce forse un po' scontato, epidermico: narcisista, smisuratamente ambizioso, opportunista, senza scrupoli), della difficoltà di fondere in una summa omogenae storia (in senso narrativo) e Storia, senza far torto nè all'una, nè all'altra. Perla per cinefili le proiezioni mute con accompagnamento al piano, immagine di un cinema degli albori, oggi ricordato da pochi.


Ne emerge un film come al solito molto personale che denuncia però una costrizione in cui il regista non si trova a suo agio. La camicia di forza della Storia, con le sue date e i suoi avvenimenti, vincola la narrazione che tenta di liberarsene non riuscendovi sempre.(Giancarlo Zappoli, mymovies.com)


Regia: Marco Bellocchio
Anno: 2009



Giudizio: ***1/2

domenica 11 luglio 2010

Scoop



Seconda commedia d'ambientazione europea per Woody Allen dopo Match Point. Una giovane giornalista in erba, Sondra (Scarlett Johansson), seguendo la pista suggeritale dall'apparizione del fantasma di un noto reporter recentemente scomparso, si mette sulle tracce di un sospetto serial killer, rampante membro dell'aristocrazia londinese, Peter (Hugh Jackman). In questa caccia allo scoop è aiutata da un maldestro illusionista, Sid, nome d'arte Splendini (Woody Allen). Sondra finirà fatalmente per innamorarsi di Peter e convincersi della sua innocenza, ma Sid riuscirà a scoprire la verità. Finale tragicomico.
Commedia che fa il verso al giallo, trama senza pretese, epilogo piuttosto prevedibile, personaggi convenzionali, ma quel che davvero conta nei film di Woody Allen è che tutto diviene immediatamente pretesto per liberare l'irrefrenabile, esilarante sarcasmo che ne è da sempre tratto distintivo. Ancora una volta le battute vengono snocciolate a raffica, divertenti e pungenti come sempre, con una Johansson un po'trattenuta nella recitazione, ma che si scopre ottima spalla per Allen. Si ride dei modi affettati della nobilità inglese, degli stereotipi del giornalismo più spregiudicato, dei tic e delle paranoie comuni, perfino della morte e dell'aldilà. Il finale è assolutamente brillante e chiude il cerchio: il film termina sul barcone che traghetta le anime dei defunti, così com'era cominciato. Difficile credere che nella figura del prestigiatore che stancamente ripete sempre gli stessi trucchi di repertorio e recita il medesimo, abusato copione, non vi sia un riferimento autoironico al lavoro del regista ed all'industria dello spettacolo in generale, destinata a a soddisfare il proprio pubblico reciclando all'infinito i propri clichè.



Regia: Woody Allen
Anno: 2006


Giudizio: ***

venerdì 9 luglio 2010

Lettere da Iwo Jima



Secondo capitolo, dopo Flags of Our Fathers, dedicato da Clint Eastwood alla memoria della sanguinosa battaglia di Iwo Jima, combattuta sull'isola giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale. Se nel primo l'ottica era in chiave americana, questo episodio assume il punto di vista dei soldati nipponici, ispirandosi al libro "Picture Letters from the Commander in Chief" del generale Koribayashi (interpretato sul set da Ken Watanabe). In quest'operazione cinematografica (inedita) era inevitabile che i due film avessero punti di contatto (fatti, sequenze, scenografie, inquadrature), ma nei temi che trattano e nell'angolazione da cui li affrontano si notano precise differenze. Lettere da Iwo Jima racconta come le truppe giapponesi fecero fronte ai combattimenti, pur sapendo di essere destinate alla disfatta e, con essa, alla morte. Eastwood è attento alle peculiarità culturali della sensibilità orientale (sacralità della difesa del suolo patrio, cieca fedeltà ai superiori, il suicidio come misura estrema per sottrarsi al disonore della sconfitta), ma al tempo stesso gli preme mostrare l'universalità dei sentimenti, delle paure e delle speranze che accomunavano i soldati di entrambi i fronti, quali membri di un'unica, dolente umanità. Lo fa, soprattutto, attraverso le lettere del titolo (rinvenute molti anni più tardi) che schiudono un universo di intimità familiare che rappresenta la normalità di una vita alla quale chi combatte su Iwo Jima sa di aver rinunciato. Il messaggio è più radicalmente pacifista, è più netta la denuncia dell'assurdità delle guerre e l'appello alla fratellanza dei popoli come salvezza rispetto all'irrazionalità della Storia. Vi è anche una constestazione del principio d'autorità, laddove gli ufficiali più illuminati (Koribayashi, ma anche il barone Nishi, eroe olimpico di Los Angeles 1932, interpretato da Tsuyoshi Ihara), pur restando fedeli fino alla fine all'incarico assegnato loro, ne intepretano con intelligenza e benevolenza i compiti, anziché adeguarsi acriticamente a dettami che non comprendono, nè condividono: è un appello ad una moralità individuale, alla responsabilità del singono rispetto alla cecità dell'ideologia. Infine, dietro la composta rassegnazione con cui Koribayashi affronta la fine (della battaglia e della vita), si scorge in trasparenza il sereno commiato dell'uomo Eastwood, consapevole di essere ormai prossimo agli ottant'anni (nel successivo Gran Torino questo tema si farà assai più esplicito).
Regia come sempre misurata ed elegante, fotografia notturna e cromaticamente essenziale, momenti toccanti (le morti del giovane Shimizu, di Koribayashi e Nishi, la lettera della madre del prigioniero americano morente) ed intepretazioni all'altezza completano il quadro di uno dei più incisivi film di guerra degli ultimi tempi.



Regia: Clint Eastwood
Anno: 2006


Giudizio: ****

mercoledì 7 luglio 2010

Donne Senza Uomini



Da un romanzo di Parsipur, ambientato nell'Iran del 1953. Quattro donne cercano di sottrarsi alla opprimente claustrofobia della loro condizione: Fakhri (Arita Shahrzad) lascia il marito, generale autoritario ed arido; Zarin (Orsolya Toth) scappa dal bordello in cui è costretta a prostituirsi; Munis (Shabnam Toloui) preferisce la clandestinatà dell'attivismo politico alla segregazione impostale dal fratello fondamentalista; Faezeh (Pegah Feydoni) abbandona la propria intransigente castigatezza dopo aver perso, in uno stupro, la verginità gelosamente custodita. La fuga nell'isolata villa di campagna dove appare, per un momento, possibile una vera libertà, dura lo spazio di un'illusione: il processo democratico voluto dal Primo Ministro Mossadeq è già al tramonto e le ombre del colpo di Stato e della restaurazione assolutista sono alle porte.
Da sempre sensibile al tema del ruolo della donna nella cultura islamica, l'artista visiva Shirin Neshat, pur non rinnegando i suoi trascorsi nelle video-arte, tenta la via del lungometraggio cinematografico, realizzando un film a due livelli. Da un lato ricostruisce con accuratezza e verosimiglianza il contesto storico ed il clima politico del tempo, sviluppando un parallelismo che parla, attraverso il passato, del presente dell'Iran odierno, delle sue utopie, delle sue ipocrisie, del suo bisogno di libertà (rappresentato dalla villa fuori città, un Eden fantastico, un luogo sospeso di indipendenza, emancipazione e, autobiograficamente, esilio). Al tempo stesso Neshat non esita ad imboccare sentieri simbolici, ad inseguire suggestioni oniriche, a concedersi spunti surrealisti, ad affidarsi all'espressività evocativa delle ambientazioni e e dei paesaggi. Il "realismo magico" (Fabio Ferzetti, Il Messagero) che ne risulta è affascinante, ma ci restituisce un film che "spesso si ripiega, inceppa, scarta" (Daniela Zanolin, Segnocinema), narrativamente disomogeneo, forse troppo costruito e ricercato nello stile, con una voce fuori campo che spiega troppo. Ammirevole la fotografia, basata sui chiaroscuri e sul contrasto cromatico bianco/nero. Premiato a Venezia.



Regia: Shirin Neshat
Anno: 2009


Giudizio: ***

lunedì 5 luglio 2010

Oldboy



Secondo capitolo della trilogia della Vendetta del sudcoreano Park Chan-wook: un uomo, Oh Dae-su (Choi Mis-sik), viene sequestrato e tenuto prigioniero in un angusto appartamento per 15 anni. Improvvisamente liberato, fa della ricerca della verità (su chi l'ha rinchiuso e perchè) e della vendetta la sua missione. Con il supporto della giovane Mi-do (Kang Hye-jeong), di cui si innamora, rintraccia nel lontano passato la ragione del suo supplizio e scopre che la vendetta, di cui è stato a sua volta vittima, non è ancora terminata.
Park Chan-wook rielabora con originalità un ampio materiale narrativo e figurativo, che spazia dalla tragedia greca (con chiaro riferimento all'Edipo Re di Sofocle, di cui riprende il tema tabù dell'incesto ed il motivo dell'ostinato quanto doloroso desiderio di conoscere), alla tradizione fumettistica orientale (la vicenda è ispirata ad un manga), al genere pulp (nelle frequenti esplosioni di cruda violenza) e perfino ai videogames (nella sequenza del combattimento in corridoio). Di pari passo va la variabilità del registro stilistico, che conosce toni ora drammatici, ora poetici ed intimisti, a tratti grotteschi (talvolta un po' kitsch) e con accenni di humor nero. Nei meccanismi di una sceneggiatura tentacolare ma ben congeniata, sono calati i temi profondi della colpa, dell'espiazione, della vendetta: si avverte un sentimento tragico della vita (la "prigione più grande" a cui accenna Oh Dae-su), l'impotente ribellione all'infelicità esistenziale, l'angosciosa incomprensione di un fato di cui tutti i personaggi sono scacco.
Film pessimista, ma dal finale aperto alla speranza, fu molto apprezzato da Tarantino (tanto da averlo definito "il film che avrei voluto fare"), che lo ha premiato a Cannes.



Regia: Park Chan-wook
Anno: 2003


Giudizio: ***1/2

domenica 4 luglio 2010

Funny Games



Fedelissimo remake hollywoodiano dell'omonimo film diretto in Austria, dallo stesso Heneke, dieci anni prima (1997). Ann (Naomi Watts) e George (Tim Roth) si recano alla loro casa sul lago per trascorrervi una vacanza, assieme al figlioletto Georgie. Paul (Micheal Pitt) e Peter (Brady Corbet), giovanotti in tenuta da golf e guanti bianchi, si spacciano per vicini cortesi e beneducati, ma presto si rivelano feroci aguzzini, sottoponendo l'inerme famiglia ad un'infinità di sevizie e crudeltà.
Heneke riprende la meditazione kubrickiana di Arancia Meccanica sulla valenza estetica della violenza fine a se stessa e sul suo essere dato di fatto connaturato all'indole umana (tanto da ironizzare sarcasticamente sulle origini psicologiche e sociologiche che le vengono spesso attribuite: alla domanda "Perchè?" l'unica risposta possibile è un inquietante "Perchè no?"), ma sposta l'asse della riflessione soprattuto sulla spettacolarizzazione sadica della violenza (emblematica la lunga inquadratura della televisione imbrattata di sangue) e raggiunge gli esisti più originali nell'analisi metacinematografica del rapporto fra il regista ed il suo pubblico, fra realtà e rappresentazione. All'interno di un genere dai codici ben definiti, quale è il thriller, Heneke si muove infrangendone regole e consuetudini, allo scopo di destabilizzare le certezze dello spettatore e tradirne le aspettative. Induce l'immedesimazione nella tranquilla normalità della famiglia borghese, per poi scardinarne le rassicuranti convenzioni che ne regolano le interazioni sociali; invita chi guarda a scommettere sull'epilogo del film, illudendolo di una possibilità di consolatoria salvezza che però non ci sarà; inibisce le tendenze vouyeristiche relegando i momenti più efferati al fuori campo; arriva perfino a sburgiardare la finzione filmica, ribaltando l'assunto della libertà dello spettatore (che può sempre, se vuole, cambiare canale), allorché la storia sembra per un attimo incanalarsi su binari liberatori e consolanti (Ann riesce ad uccidere Peter), salvo poi azzardare un rewind della pellicola che cancella la sequenza e ne permette una diversa continuazione. La sensazione, in questo film scandolasamente disturbante, ambiguo e controverso, è che "è il regista che tiene in ostaggio Ann, George e Georgie" (Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore), in un gioco sadico che ha nello spettatore la sua vera vittima.


"Con Funny Games reagivo a un certo tipo di cinema americano, alla sua violenza, al suo essere naif, al modo in cui gioca con gli esseri umani. In molti film americani la violenza è diventata un prodotto di consumo." (Micheal Heneke)


Regia: Michael Heneke
Anno: 2007


Giudizio: ****

sabato 3 luglio 2010

About Elly


Un gruppo di amici lascia Teheran per trascorrere una breve vacanza al mare. Fra loro vi sono tre coppie sposate con i rispettivi figli, Ahmad (Shahab Hosseini), che è appena tornato dalla Germania dopo aver divorziato, e la giovane Elly (Taraneh Alidoosti), maestra di asilo di uno dei bambini, invitata per farle conoscere Ahmad e favorire il fidanzamento tra i due. Quando uno dei bimbi rischia di annegare, Elly scompare, forse affogata nel tentativo di salvarlo. Partono le ricerche che porteranno ad una verità inattesa.
Potrebbe essere un dramma girato in Europa, con le tinte del giallo, ma a dirigerlo è un giovane regista iraniano, Farhadi, che dimostra padronanza nell'utilizzo del mezzo cinematografico ed uno stile moderno, in cui la telecamera è molto mobile e segue da vicino la scena, spesso prossima al centro dell'azione. Il clima giocoso ed allegro della prima parte lascia via via il posto ad atmosfere tese ed opprimenti (sottolineate anche da cambiamenti ambientali e metereologici) allorché la scomparsa di Elly fa esplodere le tensioni latenti nel gruppo di amici, le cui dinamiche sono peraltro descritte con realismo e naturalezza. Difficile non scorgervi un discorso politico (sufficientemente implicito da sfuggire alla censura ufficiale): i fermenti modernisti (qui rappresentati dall'aspetto e dai comportamenti emancipati ed occidentalizzanti dei personaggi, appartenenti, non per caso, all'emergente classe medio-borghese) che pure attraversano l'Iran, sono la maschera di un paese cha ancora abdica rispetto alle libertà civili ed alle responsabilità etiche. Il cedimento di Sepideh (Golshifteh Farahani), che tradisce la memoria dell'amica per giustificare se stessa e gli altri agli occhi del fidanzato di Elly, è la denuncia della viltà di chi accetta di adeguarsi pavidamente al moralismo ipocrita di un regime autoritario e corrotto. La votazione con cui il gruppo decide la linea da sostenere è beffardamente unanime, come gli esiti plebiscitari di certe consultazioni elettorali, fintamente democratiche. La parte del paese che sogna nuova libertà (visivamente resa con l'allegoria dell'aquilone) si scontra con la passiva immobilità della maggior parte della popolazione (la macchina insabbiata degli ultimi fotogrammi). In controluce, note di costume sulla società iraniana, intrisa dei pregiudizi (sottomissione della donna, salvaguardia dell'onore) instillati dal'indottrinamento religioso. Orso d'argento a Berlino.


Regia: Asghar Farhadi
Anno: 2009


Giudizio: ***