mercoledì 29 settembre 2010

Il Canto di Paloma


Fausta (Magaly Solier), giovane peruviana, ha mille paure ed una totale diffidenza verso gli uomini, trasmessale dalla madre, vittima degli stupri e delle angherie che erano all'ordine del giorno nel Perù degli anni '80, ai tempi dello scontro fra la dittatura militare ed i gruppi rivoluzionari (maosti, Tupac Amaru). Quando la madre muore, va a lavorare come cameriera in una casa signorile, mentre in famiglia fervono i preparativi per il matrimonio della cugina. La corte gentile e disceta che le fa il giardiniere Noè (Efrain Solis) l'aiuterà ad affrontare finalmente i propri timori. Film imperfetto, in cui non tutto forse torna come dovrebbe negli equilibri narrativi, ma ricco di trovate fantasiose e poetiche, di allegorie originali e spunti profondi, come è proprio di quel realismo magico che ha fatto la fortuna di molta letteratura del mondo latino. Piacevole da ascoltare e toccante il canto (nella melodica e misteriosa lingua quechua degli Inca) con cui Fausta (e prima ancora la madre) esorcizza il terrore, riuscendo solo così ad esternare l'indicibile, a sublimare un orrore altrimenti inesprimibile. Così come è di effetto la metafora del tubero inserito nella vagina, ingenua e disarmante difesa contro la malavagità umana (nella speranza che "solo lo schifo ferma gli schifosi"), il cui germogliare letale rimanda all'idea di un cancro arduo da estirpare, che cresce ed incancrenisce nell'animo di chi ha subito (indirettamente, in questo caso) violenze inumane e ne porta dentro una incancellabile tara (di cui forse è simbolo anche quel cadavere materno da cui Fausta sembra non riuscirsi a liberare): ennesima testimonianza della difficoltà che incontrano le nuove generazioni sudamericane nell'elaborare i drammi della storia recente, nel farsi carico delle atrocità compiute e subite dai padri. Le note di costume che fanno da contorno sono colorite e restituiscono (in contrasto con l'asettico ambiente della villa borghese) l'immagine di un popolo che, pur per ampi strati al di sotto della soglia di povertà, cerca a suo modo di trovare una propria spensieratezza e recuperare l'entusiasmo di vivere. Ed in effetti, la presa di coscienza di Fausta nel finale, che sceglie, seppur ancora timidamente, di aprirsi alla vita è un messaggio di speranza per il futuro di un intero paese. Orso d'oro (meritato) al festival di Berlino, candidato all'Oscar.


Regia: Claudia Llosa
Anno: 2008

Giudizio: ***1/2

domenica 26 settembre 2010

Inception


Dom Cobb (Leonardo Di Caprio) è specializzato nel rubare informazioni riservate, introducendosi nei sogni delle persone e carpendone i segreti. Il ricco imprenditore Mr. Saito (Ken Watanabe) gli chiede di eseguire l'operazione opposta ovvero l'innesto (in inglese inception, appunto) di un'idea nella mente di Robert Michael Fischer (Cillian Murphy), erede di un magnate rivale: smantellare l'impero industriale costruito dal padre. In cambio, gli promette la possibiltà di tornare liberamente negli Stati Uniti, dove è accusato dell'omicidio della moglie Mal (Marion Cotillard) e dove vivono i figli che non vede da lungo tempo. Cobb mette su una squadra con il cui supporto e grazie, in particolare, all'aiuto della brillante e giovane Ariadne (Ellen Page) realizza un complesso sistema di architetture oniriche a più livelli (sogni dentro altri sogni) al fine di superare le difese subconscie di Fischer. Finale aperto alle intepretazioni.
Niente di nuovo sotto al sole: se l'idea di avventure in universi paralleli, dimensioni virtuali accedibili solo durante uno stato dormiente (o comunque di incoscienza) nel mondo reale e con l'ausilio di tecnologie futuristiche è stata già ampiemente esplorata nel celeberrimo Matrix (e ripresa a suo modo, fra gli altri, dal recentissimo Avatar), anche la personificazione delle proiezioni inconsce in entità apparentemente indistinguibili dal reale ha radici lontane (dal formidabile ed ormai datato Solaris di Tarkovskij). Il tutto sapientemente condito da una buona dose di action sparatutto e di romanticismo che rivelano gli intenti prevalentemente commerciali di quest'ultima opera di Cristoper Nolan. Il tentativo, infatti, di conferirle spessore metafisico-filosofico-psicologico (qual è il confine fra realtà e sogno? Quali sono i meccanismi più profondi ed oscuri della psiche umana? Ecc.) appare più che altro un colossale ingarbugliamento delle carte in tavola, spiegato a volte troppo didascalicamente (durante l'apprendistato di Aridane, per esempio) a volte troppo fumosamente. Se almeno si fosse tradotto in autentica ricchezza visionaria, ne sarebbe forse valsa la pena, ma fatta salva qualche sequenza d'effetto (Parigi che si ripiega su se stessa!) non si resta particolarmente impressionati neppure a livello visivo/percettivo. Grazie al cast, alla buona regia ed ad un pizzico di curiosità che pure mette nello spettatore, Inception, va detto, è un film discreto, godibile e se non altro non scontato. Consolazione però probabilmente troppo magra per un'opera che lascia l'impressione di ambire, almeno negli intenti, allo status di fenomeno culturale, di film di culto.


Esercizio virtuosistico in assenza di visione: a Nolan non riesce l'impresa di coniugare cinema commerciale e pellicola filosofica (Giovanna Bragana, I Duellanti)


Regia: Cristopher Nolan
Anno: 2010


Giudizio: **1/2

domenica 19 settembre 2010

Primavera, Estate, Autunno, Inverno...E Ancora Primavera


La vita di un monaco buddista (interpretato da vari attori, fra cui lo stesso Kim Ki-Duk), scandita da stagioni che corrispondono ad altrettante fasi dell'esistenza: la primavera (l'infanzia), in cui, ancora bambino, viene educato da un maestro asceta (Oh Young-Su) in un eremo sito in mezzo ad un lago, immerso nella natura più incontaminata; l'estate (la giovinezza) in cui conosce l'amore e scopre la sessualità, lasciando l'eremo per seguire la donna amata; l'autunno (l'età di mezzo), in cui uccide la moglie per gelosia e torna all'eremo, per cercarvi rifugio, ma viene comunque trovato dai poliziotti e condotto via; l'inverno (l'età della maturità), in cui, scontata la pena, torna all'eremo per riprendere la vita ascetica di prima; di nuovo la primavera, quando una madre lascia alla sua custodia il figlio, in modo che lo educhi come con lui aveva fatto a suo tempo il maestro.
Favoletta contemplativa, congiunge il facino poetico dell'ambientazione naturale (bellissimo soprattutto il paesaggio invernale) ai temi buddisti della ciclicità dell'esistenza e dell'armonioso connubio fra uomo, natura e spiritualità ed ai temi più universali delle conseguenze morali delle proprie azioni, della dialettica colpa-espiazione-redenzione. Forse il simbolismo è alla lunga troppo insistito e la narrazione troppo irrealistica, così che si ha la sensazione di aver assistito alle allegorie un po' pedagogiche e talvolta grossolane di un apologo, piuttosto che ad una storia realmente sentita e convincente. Il testo che il maestro fa incidere al protagonista sul legno del pavimento è il Sutra del Cuore della Perfezione della Saggezza.



Regia: Kim Ki-Duk
Anno: 2003


Giudizio: ***

Memento


Dalla morte della moglie, Leonard Shelby (Guy Pierce) soffre di amnesia anterograda: non è più in grado di acquisire nuovi ricordi, dimentica ogni cosa in poche ore. Ha sviluppato un complesso sistema di promemoria (fotografie, appunti, tatuaggi, ecc.) con cui cerca di tener traccia degli indizi e dei progressi in quella che è diventata la sua unica ragione di vita: trovare l'assassino della moglie e vendicarla. In questa ricerca sembrano aiutarlo una donna, Natalie (Carrie-Anne Moss), e l'amico Teddy (Joe Pantoliano).
Christopher Nolan ha diretto uno dei più originali, avvincenti ed interessanti thriller degli ultimi anni. La sceneggiatura è praticamente perfetta: l'idea di alternare due linee narrative, una in ordine cronologico (e contraddistinta dalla fotografia in bianco e nero) e l'altra in ordine inverso (ed a colori) convergenti verso il momento culminante della storia è stata intuizione straordinaria, capace di creare un climax che letteralmente cattura l'attenzione spettattore dall'inizio alla fine del film. Al tempo stesso, questo ripensamento ipermoderno degli schemi narrativi classici non è puro artificio, ma ha una giustificazione molto coerente con il contenuto filmico: riproduce in chi guarda lo stesso stato di smarrimento e disorientata confusione che vive il protagonista per via del grave disturbo che l'affligge. Altra intuizione brillante: affidare al racconto della vicenda parallela di Sammy (Stephen Tobolowski) spiegazioni e dettagli che avrebbero altrimenti appesantito il flusso degli eventi. A ciò va aggiunto che al di là dell'appeal commerciale, Memento affronta temi non banali in modo nient'affatto superficiale: il significato dell'identità personale, le relazioni reciproche fra conoscenza, memoria e realtà, l'autoinganno come espediente per rendere l'esistenza sopportabile e trovarvi un senso, i limiti della vendetta come compensazione di una perdita. Anche il finale, aperto ed ambiguo, contribuisce a conferire spessore. Indimenticabile la sequenza, a suo modo poetica, in cui il protagonista chiede ad una prostituta di aspettare che si addormenti per poi svegliarlo chiudendo rumorosamente la porta del bagno: disperato tentativo di rivivere, per pochi attimi, l'illusione di avere ancora la moglie accante a sè.
Ad ormai dieci anni dalla sua uscita, è oggi chiara l'influenza che questo fim ha avuto su molta cinematografia successiva e non si può che rendergliene merito.



Regia: Christopher Nolan
Anno: 2000


Giudizio: ****

mercoledì 15 settembre 2010

Somewhere


Johnny Marco (Stephen Dorff) è un divo hollywoodiano che conduce un'esistenza annoiata ed indifferente, circondato da ogni lusso ed agio: vive in una suite, gira in Ferrari, inganna il tempo con festini mondani, spettacolini erotici, facili conquiste. Quando si trova a passare un periodo con Cleo (Elle Fanning), la figlia undicenne che vede di rado, ritrova un senso nella vita.
Ad ormai diversi anni da Lost in Translaton, Sofia Coppola torna su temi analoghi: il senso di vuoto interiore, lo smarrimento morale, l'insoddisfazione ansiosa, la solitudine di chi vive imprigionato in un mondo eccessivo ed artificiale, inautentico e materiale, quale quello della grande industria cinematografica di Hollywood. L'incontro con la figlia, la tenera scoperta di qualcosa (l'amore paterno) per cui valga davvero la pena vivere, diviene il catalizzatore di un cambiamento radicale, della rottura con rituali edonistici vacui e impersonali, di una presa di coscienza più adulta e consapevole.
Ma se tematicamente Somewhere ricorda e richiama l'opera più nota della Coppola, le analogie finiscono sostanzialmente lì: lo stile spontaneo ed equilibrato di allora si fa qui più snob, più forzata appare la ricerca del timbro autoriale nella lentezza del ritmo, nei lunghi silenzi, nell'insistenza dei piani sequenza, nelle inquadrature ricercate, nelle disarmonie del sound; nel film del 2003 il finale era aperto, problematico, qui tutto appare eccessivamente risolto, con una sequenza di chiusura un po' superflua, che ripete, ancora una volta ed a voce troppo alta, quello che si era già detto chiaramente. Nè brillano per originalità la storia nel suo complesso e le trovate comiche un po' ruffiane. Resta quindi la sensazione che la cornice formale, innegabilmente talentuosa, rischi di restare fine a se stessa, piuttosto che al servizio di un'idea davvero efficace. Sigificativo che per rappresentare la quintessenza del cattivo gusto e della volgarità televisiva, si sia scelto il panorama trash dello show business italiano: non c'è da andarne fieri. Fresco Leone d'Oro a Venezia.



Regia: Sofia Coppola

Anno: 2010


Giudizio: **1/2

martedì 14 settembre 2010

Lost In Translation


Bob (Bill Murray, bravissimo), attore al tramonto, è in Giappone per girare uno spot pubblicitario sul whisky; la giovane Charlotte (Scarlett Johansonn) vi ha seguito il marito fotografo. Si incontrano in albergo, si frequentano, ne nasce una tenera amicizia che forse potrebbe diventare una relazione, ma presto le loro strade si dividono.
La figlia d'arte Sofia Coppola costruisce il suo secondo lungometraggio basandolo semplicemente sull'incontro di due solitudini: Bob, in crisi artistica ed esistenziale, ha alle spalle un matrimonio che non funziona più, due figli che non vede mai, una carriera al capolinea; Charlotte, sposa da poco ma già insoddisfatta, non ha più dialogo con il marito, non sa cosa vuole dalla vita e da quel futuro che tanto la spaventa. Incontro che avviene in uno spazio straniante e sospeso, una Tokyo ora dipinta nel suo lato ipermoderno e fumettistico, ora in quello più tradizionale. Incontro che è una fuga, da una vita annoiata e disillusa, alla (ri)scoperta di un'autenticità perduta. Le scelte dell'autrice mirano a creare un'attesa che però resta negata: quella di un bacio, che non arriverà (se non pudico sfiorare di labbra nel finale), di un cedere alla passione, risarcimento sentimentale per due anime sperdute e disorientate, che però non vedremo. In questo la Coppola è elegante e discreta, la sua è una presa di distanza dalla volgarità e la materialità dei tempi (e di molta industria cinematografica), dalla superficialità e la vuotezza di una società che si nutre di autoinganni; sottolineata, peraltro, da una regia che si prende i suoi tempi, che insegue senza fretta stati d'animo ed emozioni, la magia di attimi fuggevoli, la malinconia di un addio. Forse a non funzionare fino in fondo sono le concessioni ad una comicità un po' banalotta, che fa ridere con pretesti scontati: le differenze linguistiche e fisiognomiche fra occidentali e giapponesi, gli eccessi della cultura nipponica: da una mano così raffinata ci si aspetterebbe qualcosina in più.
Oscar per la sceneggiatura originale.



Regia: Sofia Coppola
Anno: 2003


Giudizio: ***

martedì 7 settembre 2010

Il Padre Dei Miei Figli


Gregoire (Luis-Do de Lencquesaing), produttore parigino titolare della piccola casa cinematografica Moon Films, è travolto dai debiti ed il fallimento incombente lo induce a togliersi la vita. Gettate nello sconforto, la moglie Sylvia (Chiara Caselli) cerca di risollevare le sorti della società, mentre la figlia adolescente Clemence (Alice de Lancquesaing, la migliore del cast) si appassiona al cinema d'autore, scopre l'esistenza di un fratellastro di cui era all'oscuro, esce con uno sceneggiatore in erba conosciuto per caso, si prende cura delle sorelline. Finirà, con loro e con la madre, per lasciare Parigi.
La giovane e promettente Mia Hansen-Love si ispira alla storia vera di Humbert Balsan, conosciuto personalmente, per girare un film intimista che racconta una piccola grande tragedia, l'angoscia di chi non ce l'ha fatta, la solitudine impotente di chi è rimasto. Per metà il protagonista è Gregoire: uomo dinamico, intraprendente, forse leggero, spinto dall'entusiasmo e l'amore per il cinema verso un baratro senza via di scampo. Poi il film si fa corale, si riempie dei tentativi di colmare il vuoto interiore lasciato da un gesto tanto disperato che spingono Sylvia e la figlia Clemence ad introdursi sommessamente nel mondo che era di Gregoire, per capirlo, per ricordarlo, per "farlo rivivere" attraverso di loro. Questa malinconia ineffabile, questo male di vivere è rappresentato con grande pacatezza di toni, ma se il pudore delle emozioni e dei sentimenti è una dote che solitamente apprezziamo, la distanza a volte è sinonimo di freddezza ed è proprio questa la sensazione che talvolta lascia Il padre dei miei figli, film che mostra l'odissea di un uomo senza però farla sentire fino in fondo, che descrive lo smarrimento dei suoi cari senza però lasciarne le tracce sulla pelle dello spettatore. E'l'unica annotazione ad un film che pure ha molto di buono, non ultime una regia accorta ed una fotografia pregevole.
Le terribili difficoltà a cui vanno incontro le piccole produzioni indipendenti sono denunciate come anticamera della scomparsa di un certo cinema, raffinato ed autoriale, schiacciato dalle regole inumane di un mercato che non sa comprenderlo e rispettarlo.

La qualità più evidente del film è proprio la sua capacità di passare da un piano all’altro, dal cinema alla vita privata, dal «ruolo» di produttore a quello di padre e marito, conservando un’unità di visione che ne fa la vera forza dinamica. (Piero Mereghetti, Il Corriere della Sera)



Regia: Mia Hansen-Love
Anno: 2009


Giudizio: ***