martedì 30 novembre 2010

Non è Ancora Domani


Roma, quartiere popolare di San Basilio: Patti (Patrizia Gerardi) e Walter (Walter Saabel) sono una coppia di circensi che vivono in una roulotte e tirano avanti non senza difficoltà. Un giorno Patti trova Asia, una bimba di due anni abbandonata in un parco. Rotti gli indugi iniziali, i due prendono in custodia la piccola, che diviene per tutti "la pivellina". Fino a quando la madre non tornerà a reclamarla.
Tizza Covi e Rainer Frimmel, passato evidente di documentaristi, propongono un cinema-verità che ricorda quello dei Dardenne: ambienti disagiati e caratteri umili, telecamera che segue i personaggi, testimone oculare di una realtà che si mostra in presa diretta, senza mediazioni formali. Quello su cui i registi posano uno sguardo attento ed empatico è un mondo di precarietà e marginalità, stretto nei limiti angusti cui lo costringe la generale diffidenza, ma di cui presentano invece il volto più apertamente umano, la dignità profonda, i vincoli fondati su solidarietà e rispetto, l'assunzione estrema di responsabilità di fronte al prossimo ispirata da una partecipazione totale sul piano morale ed emotivo. Ma questo piccolo film verista è anche invito ad aprirsi all'amore ed alla gioia, come fanno Patti e Walter (ormai troppo vecchi per colmare il proprio bisogno di tenerezza con un figlio) ed il giovanissimo Tairo (che fra polverose partite di pallone e lezioni di storia ripetute controvoglia si scopre fratello maggiore amorevole e premuroso), pur nella consapevolezza che i lampi di felicità che illuminano l'esistenza umana hanno inevitabilmente natura fugace e provvisoria: il senso della vita sta quindi nel saperne godere appieno ed incondizionatamente, finché c'è tempo, finchè non è ancora domani. Premiato in decine di Festival Internazionali (fra cui Cannes) e curiosamente candidato agli Oscar per l'Austria, questo lavoro sentito ed intenso ha forse un limite estetico nella ricerca estremizzata del realismo, anche ricorrendo, fra l'altro, alla recitazione improvvisata di attori non professionisti, che seppur accresce la resa naturalistica, lascia però a tratti una vaga impressione di dilettantismo.



Regia: Tizza Covi e Rainer Frimmel
Anno: 2010


Giudizio: ***1/2

sabato 27 novembre 2010

Paranoid Park


Da un romanzo di Blake Nelson: Alex (Gabe Nevins), sedicenne di Portland, è un amante dello skateboard. Assieme ad un amico, si reca a Paranoid Park, dove si riunisce clandestinamente la comunità locale di skaters. Quando vi fa ritorno, stavolta da solo, si fa convincere a provare il brivido di saltare su un treno in corsa: sorpreso da un guardiano, lo colpisce e, involontariamente, lo uccide. Alex cercherà da una lato di cancellare tutte le prove, mentre dall'altro vivrà una crisi e cercherà di superarla raccontando tutto in lettere che non verranno mai lette da nessuno.
Gus Van Sant torna ad interessarsi, dopo il bellissimo Elephant, al mondo adolescenziale, cercando di comprendere (ma non giudicare) giovani troppo indifferenti ed amorfi e le loro paranoie (il nome del parco non è casuale) ed ossessioni. Alex è immagine di tutti i suoi coetanei: svogliato e privo di interesse per tutto fuorché lo skate (suo unico segno di affermazione identitaria), emotivamente apatico (verso i genitori, verso la fidanzatina con cui fa sesso per la prima volta senza provare nulla), assente, abbandonato alla propria fragilità, smarrito e disorientato per l'assoluto vuoto di certezze, di punti di riferimento (ha genitori separati e forse troppo immaturi) capaci di trasmettere valori o priorità morali di sorta. Significativo che la storia sia raccontata (giocando peraltro assai bene sul piano dei salti temporali) attraverso le lettere scritte da Alex, ma che finiranno bruciate: chiara metafora del cortocircuito comunicativo, dell'implosione verso un mondo tutto interiore, introverso ed impenetrabile che è malattia dell'anima di molti adolescenti (non solo americani). Se sul piano dei temi Van Sant formula domande, ma, come consueto, non dà risposte (puntando piuttosto sulla sensibilizzazione verso un tema delicato ed importante, eppure trascurato), sul piano formale si muove con eleganza, sceglie di girare in Super 8 le evoluzioni degli skaters ed usa un ralenti rilfessivo e malinconico per sottolinearne il significato più profondo. Peccato solo per la sequenza un po' splatter che mostra la morte del guardiano, piccola stonatura in una cornice stilistica di grande qualità.


Il racconto ha come oggetto il senso di colpa e l'assenza di comunicazione, la pesantezza dell'esistenza adolescente a confronto con l'aerea leggerezza del gioco, dello skateboard. (Lietta Tornabuoni, La Stampa)


Regia: Gus Van Sant
Anno: 2007


Giudizio: ***1/2

sabato 20 novembre 2010

L'Uomo Senza Passato



Appena arrivato ad Helsinki, un uomo (Markku Peltola) viene aggredito da tre malviventi e, colpito alla testa, perde la memoria. Vivo per miracolo e senza un quattrino, viene accolta da una famiglia di diseredati, si trova una sistemazione ed un lavoro, si innamora di Irma (Kati Outinen), che lavora per l'Esercito della Salvezza. Quando il passato ritorna e scopre la sua vera identità, non vuole più rinunciare alla nuova vita che si è faticosamente costruito.
Piacevole commedia del finlandese Kaurismaki, dal tono fiabesco e l'umorismo stralunato (forse il suo pregio maggiore), sul tema dell'identità, della rinascita, della seconda occasione, della solidarietà. Si respira un ottimismo di fondo, non solo del cuore, ma anche della ragione: la convinzione che nel volontarismo, nello spirito di fratellanza, nell'azione morale ispirata dalla coscienza dei singoli si può ancora rinvenire il seme di un umanità e di un mondo migliori. Nonostante l'ottusità della macchina burocratica, il cinismo del sistema bancario e del neocapitalismo globalizzato, la viscosità del sistema giudiziario, cui Kaurismaki non risparmia più di una stilettata. Lo sguardo della macchina da presa è compassionevole eppure controllato, mostra con pietà attenta un universo di poveri Cristi, di ultimi fra gli ultimi relegati ai margini della società eppure ancora capaci di aver voglia di vivere (come nella bella sequenza in cui i senzatetto ballano, mentre la banda dell'Esercito della Selvezza suona finalmente ritmi più energici e moderni). Grande successo a Cannes, nominato all'Oscar, tripudio (forse eccessivo) di critica.



Regia: Aki Kaurismaki
Anno: 2002


Giudizio: ***

giovedì 18 novembre 2010

Ferro 3


Un giovane (Hee Ja) entra di nascosto nelle case momentaneamente disabitate, vi trascorre del tempo come se ci abitasse (usa la doccia, cucina, dorme), fa ordine e pulizia, ripara gli oggetti rotti. Un giorno vi incontra per caso una ragazza maltrattata ed infelice, Sun-Hwa (Seung-yeon Lee), e la porta via con sè. Finisce nei guai con la giustizia, passa un periodo in carcere e quando ne esce ha imparato a muoversi con tale destrezza da essere invisibile: può così trasferirsi nella casa di Sun-Hwa dove i due vivono finalmente il proprio amore, all'insaputa del brutale compagno di lei.
Alla base di questo film sudcoreano vi è un'idea molto particolare, da cui la sceneggiatura prende forza: descrivere una figura insolita e poetica, un giovane che sceglie di muoversi in uno spazio impercettibile e vuoto (prima le case deserte, poi le ombre in cui si cela) per sfuggire alla bruttezza di un mondo ipocrita e violento, bugiardo e stupido, sadico ed indifferente (come emerge dai comportamenti dei diversi personaggi di contorno). Allo stesso modo adotta un silenzio irremovibile (non si sentirà mai la sua voce) come forma di comunicazione, più eloquente e romantica di parole vuote ed inutili (come quelle di chi gli sta attorno), limitandosi a sfogare con una mazza da golf (il ferro 3 del titolo) ed una pallina la propria rabbia esistenziale. In contrasto con la volgarità dei tempi, l'amore fra il giovane protagonista e la malinconica Sun-Hwa assume carattere di delicata leggerezza, come un piccolo miracolo che può schiudersi solo in quella zona di metaforico esilio interiore, in quell'area di confine ove ancora sopravvivono libertà e purezza. Una bella metafora che mette alla prova la fantasia dello spettatore quando nell'ultima parte il racconto, fin allora sostanzialmente verosimile, sfuma nella metafisica fantastica del sogno. Operazione apprezzabile quella di Kim Ki-Duk, premiata a Venezia, anche se tradita da qualche piccola caduta di stile (cosa c'entra la scena con cui il protagonista quasi ammazza fortuitamente una passante con la sua pallina da golf?) e dalla sensazione che il simbolismo sia un po' troppo forzatamente ricco, che si abbia a che fare con "un film-bottiglia, come quelli che si giravano tra gli anni 60 e i 70" dentro cui "si può infilare di tutto" (Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore)".


È una metafora che nel corso di un'ora e mezza si dipana coniugando in una rara sintesi leggerezza e profondità (Tullio Kezich, Il Corriere della Sera)



Regia: Kim Ki-Duk
Anno: 2004


Giudizio: ***1/2

martedì 16 novembre 2010

Animal Kingdom


Dopo la scomparsa della madre, il giovane Joshua (James Frecheville) va a vivere con la nonna Janine (Jacki Weaver) e gli zii Andrew (detto Pope ed interpretato da Ben Mendelsohn), Craig (Sullivan Stapleton) e Darren (Luke Ford), delinquenti che operano in vari settori della criminalità di Melbourne (rapine, spaccio). Quando la polizia uccide Barry (Joel Edgerton), amico e socio di Pope, si innesca una spirale di terribili vendette. Joshua si trova a rivestire il ruolo di testimone chiave nel processo che vede coinvolti i suoi zii ed è spinto da un detective (che ha preso a cuore il suo caso e vorrebbe aiutarlo) a collaborare con la giustizia. Ma alla fine sceglierà di fare giustizia da sè.
L'australiano Michod ha riversato in questo cupo crime movie di genere una visione profondamente pessimista dell'umanità, imbevendola di un nichilismo senza mezze misure: non esistono bene o male, nè buoni o cattivi, vige solo la legge del più forte, la società è come una giungla (come afferma programmaticamente già il titolo e come sottolineano molte immagini, come quella in cui Craig giace senza vita e le mosche gli si posano sul viso, come fosse la carcassa stramazzata di un animale morto). Non c'è spazio, in questo mondo violento ed iniquo, per percorsi di redenzione (ed infatti Barry muore propripo quando ha deciso di cambiare vita) o per chi è reso debole e vulnerabile dalla paura (Craig). Joshua è quindi messo davanti ad una possibilità di scelta, ma sia le istituzioni corrotte (la squadra antirapina uccide discrezionalmente, la squadra antidroga fa affari con i trafficanti), sia il microcosmo familiare (spietato e cinico, con una madre crudele e priva di ogni scrupolo più degli stessi figli) la rendono una scelta obbligata: l'adesione alle regole selvagge della brutalità, della prevaricazione, della vendetta è necessaria per la sopravvivenza in un "regno animale" privo di reali vie di salvezza. E così il percorso che Joshua intraprende suo malgrado lo porta ad assomigliare mostruosamente allo zio Pope, il più feroce dei tre, di cui nell'ultima, dura sequenza prende simbolicamente il posto. Spessore tematico dunque, ma anche sequenze d'autore, ritmo misurato ed una sceneggiatura solida e convincente (peraltro vagamente ispirata a fatti veri) fanno di Animal Kingdom un debutto assai interessante e di Michod un regista da non perdere d'occhio.



Regia: David Michod
Anno: 2010


Giudizio: ***1/2

lunedì 15 novembre 2010

The New World


1607: una spedizione di coloni inglese approda sulle coste della Virginia, dove fonderà la città di Jamestown. Fra loro il capitano Smith (Colin Farrell) è inviato presso una tribù di indiani nativi che lo fanno prigioniero. Gli salva la vita una principessa (Q'Orianka Kilcher) ed i due si innamorano. Lei abbandona il suo popolo per seguirlo, ma lui sceglie di partire in cerca di nuove avventure e delle Indie. Ormai risposata e madre, lo incontra per l'ultima volta a Londra, prima del viaggio di ritorno in America durante il quale si ammalerà e morirà prematuramente.
Terrence Malick sceglie una storia non particolarmente originale e spesso banalizzata (la leggenda di Pocahontas) per farne molto di più: un viaggio dell'anima alla scoperta del senso vero dell'amore, dell'apertura alla diversità, dell'ambizione e del bisogno tutto umano di confrontarsi costantemente con i propri limiti per superarli nel disperato tentativo di dare un significato all'esistenza, della fedeltà e dell'oblio. Non solo: affiorano, specialmente nella prima parte, i temi più cari allo sfuggente regista americano, vale a dire la perdita dell'innocenza, il contrasto fra la civiltà corruttrice e la purezza dello stato di natura, la nostalgia per un passato mitico ed autentico, macchiato dalle colpe della Storia (nettissima è la contrapposizione fra il mondo idilliaco ed incontaminato degli indigeni ed il forte dei coloni in cui regnano avidità, gelosia, morte e follia). Così come lo stile cinematografico porta inconfondibilmente la firma dell'autore, con il suo ritmo riflessivo, l'estasiante bellezza delle immagini, i paesaggi naturali, le voci interiori dei personaggi, il timbro alto, il sottofondo filosofico. Forse l'impressione di compiacimento artistico è in parte giustificata, forse è eccessivo il tono evocativo che sembra fare di ogni parola o inquadratura una rivelazione, ma non si può negare la capacità di trasmettere una visione del mondo e del cinema ed una sensibilità estetica decisamente al di fuori del comune. Prendere o lasciare: questo è Terrence Malick.




Regia: Terrence Malick
Anno: 2006


Giudizio: ****

mercoledì 10 novembre 2010

Il Divo


Gli ultimi anni della vita politica dello statista più discusso d'Italia, Giulio Andreotti (nei suoi panni Toni Servillo), nel periodo compreso fra il 1991 ed il 1993, dal suo settimo ed ultimo governo al processo per mafia, passando per Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica. Molti modi di raccontare questa storia erano possibili, la maggior parte dei quali scontati: un grande plauso va al regista Paolo Sorrentino per aver scelto il meno convenzionale, il più coraggioso e sorprendente. Adottando la via della deformazione grottesca e delle atmosfere surreali e dissacranti, spingendo sul pedale della sperimentazione (inquadrature e movimenti di macchina atipici, colonna sonora esuberante), affidandosi ad un Servillo più espressionista che mai, dosando sfera pubblica e privata, l'Andreotti di Sorrentino è ritratto in tutta la sua enigmaticità e complessità, figura controllata ed incline alla razionalità del calcolo, un "regista freddo impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza un momento di pietà umana", eppure tormentato dall'angoscia del rimorso per la morte di Moro, profondamente solo ed amareggiato dall'accusa di vicinanza, in un passato che nega perfino a se stesso, a Cosa Nostra. Un uomo al tempo stesso talmente schiavo e padrone del potere da divenirne simbolo, incarnazione del principio, moralmente controverso, per cui il male è accettabile e necessario e la verità sacrificabile, qualora il fine ultimo sia perseguire il bene collettivo, meglio ancora se in nome di Dio. Mentre ci racconta questo Andreotti, Il Divo racconta anche un'ampia parte della nostra storia recente, quella del predominio DC, dei clientelismi, delle infiltrazioni mafiose, della strategia della tensione, delle morti misteriose e degli intrighi e lo fa con modi e toni mai banali: basti la fantastica apertura con le uccisioni in sequenza di Mino Pecorelli, Roberto Calvi, Michele Sindona, Alberto Dalla Chiesa, Giorgio Ambrosoli, Aldo Moro e Giovanni Falcone accompagnate dalla forsennata Toop Toop dei Cassius. Il titolo rimanda ad uno dei molti soprannomi affibbiati ad Andreotti, durante la sua lunga carriera. Premiato a Cannes ed insignito dell'Oscar per il miglior trucco, grande successo di critica in patria ed all'estero.


"Immagini magnifiche, un sonoro che prende alla gola, una velocità incalzante, un'angoscia e una specie di stupore crescente" (Natalia Aspesi, La Repubblica)



Regia: Paolo Sorrentino
Anno: 2008


Giudizio: ****

domenica 7 novembre 2010

Kill Me Please


Il dottor Kruger (Aurelien Recoing) è il direttore di una clinica in cui si pratica il suicidio assistito: un sorso di veleno è offerto come viatico per il sonno eterno a chi ha deciso di farla finita, salvo accertarsi prima dell'effettiva volontà di morire del paziente. Già frequentata da personaggi eccentrici ed un po' svitati, la clinica diverrà oggetto di ostilità da parte degli abitanti della zona, innescando così un gioco al massacro in cui finiranno per morire praticamente tutti.
Qualunque tentativo di riassumere banalmente in termini di trama questa commedia nera del poco noto regista belga Olias Barco è inevitabilmente riduttivo: il suo valore sta nella galleria di pazienti bizzarri e strampalati che popolano la clinica, chi vuole morire durante un ultimo amplesso, chi cantando la Marsigliese, chi fingendosi un soldato in Vietnam, chi in realtà non vuole morire affatto; nelle atmosfere assurde e grottesche, nella paradossalità delle situazioni e dei dialoghi, nel finale tragicomico dal sapore apocalittico; nel fascino di una fotografia in bianco e nero un po' retrò; nello sguardo ironico (il discorso di Kruger sul costo sociale del suicidio, il suo interesse per le eredità dei pazienti) e nei momenti più esilaranti (il tale che racconta di aver perso la moglie a poker!). Fra le righe, la critica alla superficialità con cui talvolta si sposano convinzioni senza indagarne fino in fondo le conseguenze (il mito della "dolce morte") ed il ritratto di un'umanità squinternata, di cui, mostrandoci le stravaganze nella morte, Barco ci narra indirettamente le manie e le nevrosi in vita. Marco Aurelio d'oro al Festival di Roma.


Oggetto cinematografico non ben identificato. Proprio per questo, da vedere (Alessio Guzzano, Grazia)




Regia: Olias Barco
Anno: 2010


Giudizio: ***1/2

In Un Mondo Migliore


Elias (Markus Rygaard) è un ragazzino fragile ed introverso, a scuola lo prendono in giro e soffre per la separazione dei genitori. Christian (Wiliam Johnk Nielsen), invece, ha reagito al dolore per la perdita della madre malata di cancro con rabbia, è in collera con il padre e furioso con il mondo. Diventeranno amici e si troveranno a dover compiere delle scelte che metteranno a rapentaglio le loro stesse vite, mentre i genitori tenteranno di rimettere ordine nelle proprie disorientate esistenze.
La regista danese Susanne Bier si è trovata per le mani una materia narrativa ricca e complessa ed ha saputo muoversi con competenza: non era facile domare l'intreccio di tante storie ed affrontare tutti i temi di questo dramma intenso e, per molti aspetti, convincente. Il motore del film è, almeno nella prima parte, una riflessione interessantissima sui limiti dell'approccio filantropico e umanistico, dell'etica del perdono e del "porgere l'altra guancia" in un mondo dominato dalla violenza e dalla prevaricazione, sviluppata attraverso un parallelismo sorprendente ed incisivo fra gli episodi di bullismo in una scuola danese, l'arroganza rozza e manesca di un operaio di un'autofficina, la crudeltà sguaiata di un signore della guerra africano, tanto da essere quasi un peccato che il ragionamento venga abbandonato nella parte finale, in cui dominano invece altri temi (l'incomunicabilità fra genitori e figli, la difficoltà di educare, il disagio esistenziale, il conflitto interiore). Purtroppo, l'anello debole è una sceneggiatura studiata a tavolino, didascalica nel far accadere sempre ciò che più serve al racconto, ridimensionata da un finale troppo conciliante e risolutivo.



Regia: Susanne Bier
Anno: 2010


Giudizio: ***

venerdì 5 novembre 2010

100 di questi post...

E così cine-amando è arrivato al suo centesimo post. Una ricorrenza simbolica, a coronamento di un percorso che in questi mesi (ormai sette!) ci ha dato l'occasione di vedere (ed in alcuni casi ri-vedere) alcuni dei film più belli e significativi degli ultimi dieci anni, con una particolare attenzione per le produzioni più recenti. E proprio in questi ultimi giorni, cine-amando ha fatto un passo in più: per la prima volta ha anticipato le recensioni di film non ancora usciti in sala, grazie alle anteprime offerte dal Festival del Cinema di Roma: un valore aggiunto per i nostri lettori, del quale andiamo particolarmente fieri.

Per celebrare questo piccolo traguardo e con il proposito di continuare ad arricchire giorno dopo giorno cine-amando (abbiamo una lista di oltre 300 film del periodo 2000-2010 di cui scrivere, oltre a tutti quelli che avremo via via il piacere di vedere in sala), inauguriamo una nuova sezione, la pagina: "La Top Ten di cine-amando"in cui verrà stilata e costantemente aggiornata una classifica dei migliori flm fra quelli recensiti sul blog.

Buona lettura.

giovedì 4 novembre 2010

My Son, My Son, What Have Ye Done


Brad (Michael Shannon) ha ucciso la madre con una spada e si è barricato in casa, facendo intendere di avere due ostaggi con sè. La polizia ha circondato l'edificio, mentre un detective della omicidi (Willem Dafoe) ascolta le testimonianze della fidanzata e del regista con cui Brad aveva lavorato a teatro, interpretando Oreste nell'Orestea di Eschilo. Attraverso vari flashback sono così ripercorse le diverse tappe della sua pazzia, manifestatasi a partire da un viaggio in Perù.
Due grandi nomi della cinematografia di autore firmano questo film insolito e disturbante, prodotto da David Lynch con Werner Herzog alla regia, e stilisticamente si vede: ottima la fattura, con un uso sapiente della telecamera (rimarchevole più d'una inquadratura), una fotografia pulita e ricca di colori e giochi di luce/ombra, una stretta sinergia fra sceneggiatura, colonna sonora (ora psichedelica, ora melodica) e richezza visiva nelle ambientazioni. Il folle percorso del protagonista (che riprende, per altro, una storia vera) è costellato di suggestioni stranianti (l'ossessione per fenicotteri e struzzi, il delirio sconnesso ed enigmatico, il legame morboso con la madre, le tendenze schizofreniche). Ma le atmosfere, per quanto inquietanti ed ambigue, non bastano a dar spessore e contenuto ad un film surrealista, teatrale e spesso criptico, che non sembra, in verità, aver poi molto da dire, fatto salvo per il significato simbolico e liberatorio del matricidio di Brad e per il tema della identificazione fra attore e personaggio, qui spinto fino alle sue estreme conseguenze.



Regia: Werner Herzog
Anno: 2009


Giudizio: **1/2

mercoledì 3 novembre 2010

Rabbit Hole


Becca (Nicole Kidman) e Howie (Aaron Eckhart) hanno vissuto la tragedia della morte del figlio, investito accidentalmente da un giovane (Miles Teller). Nonostante siano trascorsi ormai otto mesi, la coppia vive ancora una crisi profonda, accentuata dalla gravidanza della sorella di Becca, Izzy (Tammy Blanchard).
Ispirandosi ad un'opera teatrale di Lindsay-Abaire (che ha anche curato la scenaggiatura), Mitchell gira un dramma intimista su un tema delicato come la perdita di un figlio, analizzando al microscopio le dinamiche psicologiche ed emotive di Becca ed Howie (tipica coppia borghese della middleclass americana) e le inevitabili difficoltà nel superare il trauma ed elaborare il lutto. Se Howie sembra rimuovere il dolore sforzandosi di vivere come se nulla fosse di giorno e passando insonne la notte davanti ai video del piccolo Danny, Becca lo affronta invece in modo più diretto e viscerale, senza nascondere la rabbia e la sofferenza. Entrambi cercano una via d'uscita dall'angoscia insopportabile che ne sta sgretolando le esistenze, l'uno rifugiandosi nella distrazione di una relazione che resterà platonica, l'altra cercando e trovando un contatto con il colpevole involontario della disgrazia, il giovanissimo Jason (sicuramente questo uno degli elementi più originali ed emozionanti del film). Lo spettatore si strugge e si commuove (pur se Mitchell è ammirevole nel trattenersi da facili patetismi) mentre assiste all'impotenza addolorata di due essere umani in scacco, a come la tragedia smascheri ipocrisie familiari e religiose (Becca definisce Dio un "coglione sadico" e lo paragona al padre, sembra credere che il fratello eroinomane abbia meritato la morte e che la sorella non meriti un figlio) e cortocircuiti comunicativi (l'amica di famiglia che ancora non ha trovato il coraggio di chiamare). Il messaggio che resta è che quella di Becca ed Howie, come quella di quanti si trovano durante la propria vita ad affrontare un'esperienza atroce e e sconvolgente, è destinata ad essere una lotta senza fine nello sforzo di andare avanti, fatta di piccoli successi e cocenti sconfitte, senza mai sapere cosa ci sarà davvero dopo, consapevoli che il dolore col tempo diviene un mattone il cui peso può diventare sopportabile, ma di cui non ci si potrà mai liberare. Il titolo rimanda alle Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie ed allude ad un viaggio verso l'ignoto (oltre a riprendere il titolo del libro a fumetti che Jason regala a Becca).



Regia: John Cameron Mitchell
Anno: 2010


Giudizio: ****

martedì 2 novembre 2010

The Social Network


Basato sul libro Miliardari per caso di Ben Mezrich: la storia di Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg) e di come, inventando il social network virtuale più famoso al mondo (Facebook), abbia contribuito a rimodellare le interazioni umane e la realtà moderna, oltre a divenire il più giovane miliardario del pianeta. Storia raccontata attraverso il filo delle controversie legali che Zuckerberg ha dovuto affrontare, accusato di aver rubato l'idea ad altri studenti di Harvard e di aver ingannato il cofondatore Eduardo Saverin (Andrew Garfield), estromesso dai vertici della società con uno scaltro espediente finanziario.
Il successo di pubblico e, soprattutto, di critica che ha incontrato questa pellicola di Fincher è per certi versi sorprendente: si è scelto un registro non particolarmente originale, a metà fra il documentarismo ed il film giudiziario (confronti continui fra i personaggi, dialoghi fitti ed incisivi, deposizioni ricostruite tramite lunghi flashback), si sono condensati molti fatti e caratteri in un tempo relativamente breve (un paio d'ore circa), si è peccato inevitabilmente di affrettatezza ed approssimazione nella caratterizzazzione delle figure secondarie. Eppure, non si fatica a cogliere ciò che veramente colpisce di The Social Network, vale a dire la vicinanza (nello stile, nella regia) a quella modernità che vuole raccontare (non a caso è il primo film ad essere girato con telecamere digitali a risoluzione 4096x2160), "l'aderenza quasi mimetica alla materia narrativa, qui raggiunta grazie alla definizione di uno spazio visivo [che è] la cifra visuale di ogni ambito della contemporaneità" (Franco Marineo, I Duellanti); la capacità di raffigurare un'istantanea veracissima del neocapitalismo della new economy e del boom informatico, del volto nuovo dell'american dream, di quella mitologia di tipi che fanno ormai parte dell'immaginario ultramoderno made in USA: il nerd sociopatico ed indifferente, ma ambizioso fino all'ossessione (Mark), l'elite aristocratica e lobbistica dei figli di papà che frequentano i club più esclusivi, l'arrivista cinico e spietato ma col fascino dell'uomo di mondo (Sean Parker, interpretato da Justin Timberlake), il perdente debole e frustrato, ma dalle emozioni più umane (Eduardo). Fincher racconta bene un viaggio nel presente/futuro per coglierne i tratti salienti, le differenze rispetto al passato (anche recente): quelli che ci mostra non sono più gli squali in giacca e cravatta degli anni novanta, ma ragazzini smisuratamente narcisisti, alternativi eppure conformissimi, individualisti, ossessionati dai vecchi miti dell'edonismo, del sesso, dell'evasione dal sè (alcol, droga), come bloccati nel relazionarsi al prossimo, sia questi una ragazza o l'amico di una vita. Se, quindi, indubbiamente qualcosa manca al film per farne una pietra miliare, lo si recupera, almeno in parte, sul piano del rinnovamento del linguaggio cinematografico e della freschezza di uno sguardo che fa riflettere su cosa stiamo, ineluttabilmente, diventando.


Non è Facebook quello di cui Social Network soprattutto racconta. Piuttosto Fincher gira un Wall Street aggiornato a trent'anni dopo, e più disperante. (Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore)



Regia: David Fincher
Anno: 2010


Giudizio: ***

Una Vita Tranquilla


Rosario (Toni Servillo) ha un passato da camorrista, ma da quindici anni, per sfuggire a morte certa, ha cambiato identità e si è trasferito in Germania, dove ha cancellato i ponti con il passato, ha imparato il mestiere del ristoratore, si è rifatta una famiglia e con essa una vita. A sconvolgere la sua tranquillità è però l'arrivo del figlio Diego (Marco D'Amore) , che gli chiede accoglienza celando il vero scopo della sua visita: compiere un omicidio. Quando Rosario vede scoperta la propria identità da chi lo vuole morto, dovrà ancora una volta fare tabula rasa per sfuggire al passato.
Cupellini gira un noir che guarda all'attualità (penetrazione camorristica nell'industria dello smaltimento dei rifiuti, strage di Duisburg), ma che sa affrontare temi assoluti: l'impossibilità di eludere le conseguenze (morali) dei propri trascorsi, l'illusorietà del cambiamento e del ravvedimento, la fatalità del destino. Dopo una prima parte preparatoria e più incerta, il film decolla nella seconda, quando la narrazione si fa più incalzante, la recitazione tesa (bravi gli attori) ben trasmette la sensazione di ineluttabilità con cui gli eventi sembrano precipatare drammaticamente verso un punto di non ritorno e soprattutto esplode, potente e tragico, il forte contrasto fra un figlio pieno di rancore per l'abbandono (tanto da mettere in atto quella che assomiglia ad una vendetta) ma in fondo fragile ed un padre combattuto dal dissidio interiore fra i rimorsi e l'istinto di sopravvivenza, la paura di perdere l'illusione di felicità che si è faticosamento costruito, lasciandosi alle spalle un peso impossibile da portare. E'stato abile Cupellini per la cura messa nella regia, meno per la sceneggiatura che nel finale non nasconde qualche piccolo buco.



Regia: Claudio Cupellini
Anno: 2010


Giudizio: ***1/2

lunedì 1 novembre 2010

The Town


Dal romanzo Il principe dei ladri di di Chuck Hogan: a Charlestown, storico e malfamato quartiere di Boston, Doug MacRay (Ben Affleck) è a capo di una banda che organizza rapine in banca e svaligia furgoni portavalori e di cui fa parte anche l'amico fraterno Jem (Jeremy Renner). Durante un colpo sequestrano per breve tempo la giovane direttrice di banca Claire (Rebecca Hall). Doug comincia a frequentarla tenendole nascosta la propria identità ed i due iniziano una relazione che spinge Doug a cambiare vita e lasciare Boston per sempre, ma è suo malgrado coinvolto in un ultimo colpo.
Ben Affleck (attore, regista e sceneggiatore) dirige un film di genere che segue schemi classici (il criminale che, grazie all'amore per una donna, crede che un'altra vita sia possibile, quello invece ormai perso per sempre per il quale non esiste più redenzione, ecc.), dosa bene sequenze di azione (sparatorie, inseguimenti) e pregnanza dei dialoghi, intreccia efficacemente le linee narrative (l'organizzazione dei colpi, il rapporto fra Doug e Claire, le indagini dell'FBI) mantenendo sempre viva la tensione. Fra le fonti di ispirazione, Affleck ha citato Gomorra di Garrone ed in effetti vi si ritrovano le atmosfere plumbee, il radicamento dei personaggi al territorio, il legame fra il quartiere ed i suoi codici ed individui che non potranno mai chiudere davvero i conti con quel mondo e quel passato. E' forse proprio questo l'aspetto più riuscito di The Town, quell'attenzione al contesto sociale (case popolari, droga, padri in carcere o morti ammazzati) che dà profondità ai personaggi, rendendoli "figure palpitanti ed autentiche" (Marco Toscano, I Duellanti). Il punto debole, invece, è una certa prevedibilità nella sceneggiatura, decisamente romanzata, ed il finale un po' troppo scontato e risolutorio. Nel complesso, comunque, una buona prova per un attore (spesso bistrattato dalla critica) che si è reinventato regista, dimostrando di averne la stoffa.


Regia: Ben Affleck
Anno: 2010


Giudizio: ***