mercoledì 29 dicembre 2010

La Classe


Ispirato ad un libro di Francois Begaudeau (passato di insegnante e qui anche attore protagonista) ed interamente girato "tra le mura" (come recita il titolo originale, Entre les murs) di una scuola media della periferia parigina. E' un film-documentario sulla condizione del sistema scolastico francese, affetto da problemi di integrazione (in classe vi sono francesi, malesi, antillani, cinesi, ecc) ed alle prese con l'insolente indolenza degli studenti da un lato e la stanca rassegnazione dei professori dall'altro. Cantet non giustifica i primi (pur mostrandone qualità che gli adulti non sanno cogliere: c'è chi, insospettabilmente, legge Platone!), nè si schiera coi secondi, di cui sembra comprendere la frustrazione ma ne riconosce impietosamente l'incapacità di penetrare la complessità enigmatica del mondo adolescenziale (con la complicazione della promiscuità etnica che mette in crisi il concetto stesso di identità condivisa). Se a fronte del precipitare di una situazione che diviene ogni giorno più ingestibile e fuori controllo (quasi nessuno studia, la disciplina non esiste, il confronto fra alunni ed insegnanti è un duello quotidiano all'insegna dell'incomunicabilità, dell'ostilità, della perdita di fiducia) il corpo docente non sa produrre idee migliori di una patetica "patente a punti" (per poi passare frettolosamente a discutere il più urgente problema del distributore del caffè!), è chiaro che la responsabilità è collettiva e la società non può esimersi dal farsene carico. Tanto che l'ammonimento di Cantet sembra voler essere più generale, con un occhio rivolto a certe soluzioni, sbrigativamente autoritarie, elaborate dagli ambienti più conservatori della società francese in risposta alle difficili sfide della modernità. Produzione intelligente ed interessante, La Classe paga però un certo squilibrio in favore del momento dialogico (è un film parlato prima che recitato) e forse si limita troppo nel mostrare determinati comportamenti e malesseri, senza riuscire a coglierne fino in fondo ragioni ed origini. Palma d'Oro a Cannes, primo film francese dal 1987. Il cast è interamente composto da reali insegnanti, studenti e relativi genitori.


Regia: Laurent Cantet
Anno: 2008


Giudizio: ***

martedì 28 dicembre 2010

14 Kilometros


Violeta (Aminata Kanta) viene dal Mali ed è in fuga da un matrimonio con un uomo sgradevole, a cui la famiglia l'ha venduta per una decina di vacche. Buba (Adoum Moussa) invece ha lasciato il Niger per inseguire un sogno: diventare un calciatore ricco e famoso. Sono entrambi diretti in Europa e le loro strade si uniranno, si separeranno e si incroceranno di nuovo in un viaggio della speranza che li condurrà, fra mille difficoltà, dal Mali all'Algeria, al Marocco ed infine in Spagna.
Olivares sovrappone ad un materiale da documentario una storia semplice e dura per raccontare l'odissea di chi si avventura lungo i percorsi dell'immigrazione clandestina, dall'Africa equatoriale fino alla costa marocchina per poi affrontare su barconi di fortuna i quattordici kilometri di mare (che danno il titolo al film) dello stretto di Gibilterra. Man mano che il cammino avanza ed il paesaggio si trasforma (dal deserto del Sahara, agli altopiani algerini, alle città marocchine, tutti stupendamente ripresi dalla telecamera di Olivares) si moltiplicano le angherie, gli inganni, i sacrifici, le delusioni, le sofferenze e se una salvezza è possibile, la si deve alla misericordia dei pochi ancora capaci di provare compassione per il prossimo. Perchè abbandonare l'Africa (e le proprie radici) anziché cercare di migliorarla vivendoci, si chiede Olivares, ma si dà una risposta con la citazione finale: perchè non si possono fermare i sogni. La sceneggiatura è elementare, la recitazione modesta ed i dialoghi piatti (anche se il doppiaggio, va detto, non aiuta), ma 14 Kilometros ci lascia comunque una testimonianza necessaria dall'indiscutibile valore morale ed il piacere visivo di immagini (specialmente i paesaggi naturali) di chiara bellezza.


Regia: Gerardo Olivares
Anno: 2007


Giudizio: **1/2

domenica 26 dicembre 2010

20 Sigarette


Testimonianza dell'unico sopravvissuto all'attacco contro la base militare di Nassiriya, in cui il 12 novembre 2003 persero la vita 19 italiani fra soldati e civili. Aureliano Amadei, regista ed autore del libro da cui è tratto il film, è il personaggio principale (interpretato da Vinicio Marchioni) ed è attraverso i suoi ricordi che sono ricostruite tanto le circostanze che lo condussero in Iraq, quanto i tragici momenti dell'attentato e le difficoltà vissute a livello personale nell'accettare l'accaduto e nel gestirne la conseguente esposizione mediatica.
Il forte taglio autobiografico trova riscontro nelle scelte di regia: l'uso della telecamera a mano ed in particolare il ricorso insistito alla soggettiva forza il punto di vista dello spettatore a coincidere con quello di Amadei, di cui è mostrato il percorso di crescita che, da giovane irrequieto frequentatore di centri sociali ed aspirante cineasta, attraverso una sconvolgente esperienza di vita e di morte (di cui porterà per sempre i segni, nel fisico e nell'animo) lo trasformerà in uomo. Nonostante uno "stile gridato ed effettistico" (Dizionario dei Film Mereghetti) ed una "poetica illustrativa, impressionista" (Federico Pontiggia, Cinematografo.it) che hanno fatto storcere la bocca a qualcuno, nonostante qualche concessione al pathos eccessivamente in stile fiction televisiva (l'incontro con i genitori del soldato caduto) ed alcuni passaggi un po' troppo didascalici (il discorso durante la presentazione del libro), di 20 Sigarette colpiscono la sincerità e l'urgenza (nate dalla necessità di ripristinare la verità a fronte delle ricostruzioni ufficiali e delle falsificazioni giornalistiche, ma anche dal bisogno tutto psicologico di elaborare il trauma), le scelte di registro tutt'altro che scontate, la presa di distanza dalle semplificazioni ideologiche e dalle mitizzazioni retoriche (i soldati presentati nè come eroi nè come carnefici, ma come esseri umani). Da non sottovalutare la riflessione (sviluppata attraverso la metafora dell'occhio-telecamera) sul ruolo del cinema quale ultimo mezzo per ristabilire una visione autentica del mondo. Premiato a Venezia, il titolo allude alle sigarette che Amadei, fumatore incallito, fece in tempo a concedersi nel suo breve ma sconvolgente soggiorno iracheno.


Regia: Aureliano Amadei
Anno: 2010


Giudizio: ***

martedì 21 dicembre 2010

Still Life


Il minatore Han (Han Sanming) cerca la moglie e la figlia, che non vede da sedici anni. L'infermiera Shen (Zhao Tao) è invece sulle tracce del marito, di cui non ha notizie da due. Entrambe le ricerche avranno successo, ma se in un caso l'incontro sarà un ritrovarsi, nell'altro durerà soltanto lo spazio di un addio. Sullo sfondo la costruzione della monumentale diga delle Tre Gole sul fiume Azzurro.
C'è più il piglio del documentarista che quello del narratore in questo malinconico film del regista cinese Jia Zhang-ke che racconta le storie, speculari ma opposte, di due anime in pena, del loro tentativo di recuperare un passato che non c'è più per poter ricostruire, a partire da esso, una nuova vita, un altro futuro. Ma se la narrazione, che si dipana lenta e senza sussulti ma non senza divagazioni ed incertezze, non convince più di tanto (così come i dialoghi, stringati e inespressivi), più interessante è senz'altro l'immagine offerta, suggestiva e realistica, di una Cina faticosamente avviata verso la modernità (la denuncia del cui costo è il messaggio politico sotteso), del contrasto fra oggetti, persone, ambienti ed atmosfere che sembrano sospesi e fuori dal tempo ed il procedere inesorabile ed incessante del progresso tecnologico e delle trasformazioni sociali. La bellezza figurativa con cui Jia Zhang-ke ha ritratto il decadente paesaggio urbano dei ruderi abbandonati ed in via di demolizione gli è valso il Leone d'Oro a Venezia. Spunti surreali e la significativa metafora finale dell'equilibrista completano il quadro.


Due tristi storie d’amore narrate con uno stile essenziale e minimalista fanno da contrappunto a uno spaccato sulla realtà sociale della Cina odierna, ritratta [...] attraverso i toni spenti e opachi di un paesaggio grigio e umido, specchio delle due anime inquiete protagoniste del film (Chiara Renda, mymovies.it)



Regia: Jia Zhang-ke
Anno: 2006


Giudizio: **1/2

mercoledì 15 dicembre 2010

Il Matrimonio di Lorna


L'albanese Lorna (Arta Dobroshi) ha sposato il tossicodipendente Claudy (Jeremie Renier) in un matrimonio combinato, per ottenere la cittadinanza belga. Claudy, che se ne è innamorato, trova solo in lei la forza per uscire dal tunnel della droga, ma Lorna ha già chiesto il divorzio: deve sposare un russo in un secondo matrimonio fittizio, organizzato dal poco raccomanabile tassista Fabio (Fabrizio Rongione), che non esiterà a sbarazzarsi di Claudy con una finta overdose. Ma per Lorna le cose cambiano quando scopre di essere incinta di Claudy.
Quello dei fratelli Dardenne è un cinema che guarda a chi vive ai margini, un cinema che puzza di verità, caratterizzato da un "approccio con la realtà duro, intransigente, in cui lasciano parlare i fatti" (Il Dizionario dei Film Morandini). Un cinema che pedina i propri personaggi (nonostante il passaggio dai 16 mm alla meno mobile telecamera da 35 mm) nelle proprie personali odissee che in questo film si chiamano immigrazione, tossicodipendenza, sottobosco di illegalità piccole e grandi. Un cinema, ancora, che sa anche parlare il linguaggio umanissimo delle emozioni, come nella bella sequenza in cui Lorna si offre (in senso metaforico e carnale) a Claudy, in un gesto estremo di affettuosa pietà. Oppure quando Lorna non vuole smettere di credere a quella gravidanza immaginaria che cela un profondissimo senso di colpa, ma che è anche fuga simbolica da una realtà troppo dura e spietata, in cui anche inseguire un sogno semplice come aprire un bar col fidanzato significa doversi sporcare le mani e dimenticare ogni forma di coscienza. Premiato per la sceneggiatura a Cannes, è il terzo film in dieci anni dei Dardenne che ancora una volta hanno fatto pienamente centro.


Regia: Jean-Pierre e Luc Dardenne
Anno: 2008


Giudizio: ****

domenica 5 dicembre 2010

Io Sono l'Amore


I Recchi sono esponenti dell'alta borghesia milanese: il patriarca e fondatore dell'azienda tessile di famiglia (Gabriele Ferzetti) ne ha lasciato la guida al figlio Tancredi (Pippo Del Buono), che ha sposato una donna russa, Emma (Tilda Swinton), da cui ha avuto tre figli: il pragmatico Gianluca (Mattia Zaccaro), il sognatore Edoardo (Flavio Parenti), la ribelle Elisabetta (Alba Rohrwacher). L'amico di Edoardo, Antonio (Edoardo Gabbriellini), cuoco talentuoso e passionale, sconvolgerà gli equilibri, scatenando emozioni violente, gelosie e tensioni.
Il regista Luca Guadagnino ha lavorato a questo progetto per dieci anni e lo si vede dalla cura formale che lo rende un affresco visivamente potente ed affascinante: la bellezza delle immagini restituisce il contrasto fra il mondo gelido ed impersonale di casa Recchi, dominato da rituali affettati e snobismo altezzoso, ed il mondo solare e romantico della campagna (vicino San Remo) dove vive Antonio e dove sboccia e si consuma, in scene di sensualità raffinata ed intensa, l'amore clandestino con Emma. Antonio, con quel suo aspetto trasandato e virile ed il suo amore per i sapori genuini ed i piaceri del palato (ed anche della carne) finirà per sprigionare le ipocrisie taciute, le pulsioni represse, gli impeti soffocati che pure albergano in casa Recchi: Emma troverà il vero amore, Elisabetta il coraggio di vivere la propria omosessualità, Edoardo quello di rifiutare le logiche spietate e senz'anima del capitalismo globalizzato. Questo contrasto fra vita e morte, fra autenticità e gelo interiore finice per rivelarsi però dissidio insanabile ed irreparabile e sui personaggi, ormai in balia di emozioni incontrollate, piomberà ineluttabile la tragedia (nella forma della morte di Edoardo). Se per due terzi del film la regia di Guadagnino è un piacere per gli occhi, il montaggio perfetto, l'interpretazione degli attori (la Swinton su tutti, ma anche la Rohrwacher) inappuntabile, lo script efficace nella sua minimalità ellittica, nell'ultima parte prevalgono aspetti più melodrammatici e la credibilità stessa dell'impianto narrativo vacilla, anche se l'eleganza della forma si mantiene inalterata. Opera interessante nel panorama del cinema italiano, capolavoro incompiuto di un regista che comunque mostra qui telento da non sottovalutare.



Regia: Luca Guadagnino
Anno: 2009


Giudizio: ***

sabato 4 dicembre 2010

Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni


Alfie (Anthony Hopkins) è in piena crisi di terza età: ha scoperto la paura della fine ed ha lasciato la moglie Helena (Gemma Jones) per sentirsi nuovamente giovane sposando una escort avvenente e scaltra (Lucy Punch). Helena, dal canto suo, è caduta in depressione, ma trova forza nelle rosee previsioni di una cartomante ed in qualche bicchierino di troppo. La figlia Sally (Naomi Watts), intanto, è in crisi matrimoniale col marito Roy (Josh Brolin), scrittore privo d'ispirazione, e finisce per innamorarsi del proprio datore di lavoro (Antonio Banderas), mentre Roy fa la corte alla vicina (Freida Pinto). Ne succederanno delle belle.
Nuova commedia d'ambientazione londinese per Woody Allen, con ben evidente l'inconfondibile marchio di fabbrica dell'autore: molto parlato, ironia pungente, battute divertenti, personaggi singolari, situazioni comuni agli ambienti borghesi benestanti e colti sarcasticamente dipinte nella propria paradossale assurdità. Ai soliti temi (l'instancabile ricerca della felicità, la curiosa contraddittorietà delle dinamiche che regolano i rapporti umani, il ruolo del caso e delle circostanze, l'insensatezza della vita) se ne aggiungono alcuni più amari forse ispirati dalla senilità di un Allen ormai settantacinquenne (paura della solitudine e della morte). Ma la riflessione più interessante ed originale è centrata sulle illusioni: è possibile farne a meno o sono un ingrediente essenziale nella ricetta della serenità? Aiutano a vivere una vita incontrollabile in cui anche un banale malinteso può cambiare il destino di una persona (come accade in una delle trovate più esilaranti del film) o sono mero autoinganno, insulso e vano? La risposta sembra stare in un finale (più aspro dell'apparenza) in cui solo la stralunata Helena ed il suo nuovo, ridicolo compagno Jonhatan (Roger Ashton-Griffiths) sembrano riuscire a coronare il proprio amore. Per un regista che sforna un film all'anno, avere ancora da dire non è cosa banale ed induce a perdonare la ripetitività di uno stile che non sa e non vuole più rinnovarsi.



Regia: Woody Allen
Anno: 2010


Giudizio: ***1/2