sabato 15 gennaio 2011

Hereafter


Marie (Cecile de France) è una giornalista francese di successo, sopravvissuta per un soffio ad uno tsunami e cambiata per sempre dall'esperienza; George (Matt Damon) è un sensitivo americano che parla con i morti, ma sogna una vita normale; Marcus (Frankie McLaren) è un ragazzino inglese che non accetta la perdita del fratello gemello che è stato sottratto dai servizi sociali alla madre alcolizzata e tossicodipendente. Tre storie che hanno a che fare con la morte e con il legame misterioso con l'aldilà e che si ricongiungono a Londra, in un finale all'insegna della speranza.
Clint Eastwood ha realizzato questo film su una sceneggiatura di Peter Morgan costruita attorno ad un motivo conduttore delicato e difficile, che si sarebbe potuta prestare all'ovvio, allo stravangante o, peggio, al patetico: con una regia sobria e come sempre senza pecche il regista americano ha scampato il triplice rischio, dirigendo un cast che recita sotto le righe, cavandosela bene nel dare un'anima a personaggi autenticamente umani. Di fronte alla morte, di cui ci si sofferma sia sul carattere più privato ed intimo (l'incidente del piccolo Jason), sia sulla dimensione collettiva, condivisa (il disastro naturale dello tsunami, gli attentati di Londra) ed alle sue implicazioni metafisiche, Eastwood ha una posizione interlocutoria, che prende le distanze dalle cialtronerie new age e dalle ricette religiose preconfezionate, ma anche dal nichilismo sbrigativo e superficiale, lasciando aperta la via del dubbio. Ma è nel confronto con la fine e nel nuovo e più ricco significato che ne assume la vita che stanno i contenuti più interessanti di un film che affronta anche i temi della solitudine, del bisogno di essere amati, della invalicabile distanza che pongono tra le persone alcune esperienze personali ed irripetibili.
Impressionante la sequenza iniziale in cui la devastazione del maremoto è resa con credibile realismo grazie agli effetti speciali digitali.




Regia: Clint Eastwood
Anno: 2010


Giudizio: ***1/2

mercoledì 12 gennaio 2011

Soul Kitchen


Il giovane greco Zinos (Adam Bousdoukos) gestisce ad Amburgo una taverna che è poco più di una bettola, ma l'arrivo di un cuoco raffinato e un po' strambo lo trasformerà in un locale di gran moda. Intanto Zinos è alle prese con mille guai: è in bolletta, la bella fidanzata lo lascia, il mal di schiena lo tortura, ha il fisco e l'ufficio d'igiene alle calcagna, il fratello Illias (Moritz Bleibtreu), appena uscito di prigione, si gioca a poker il ristorante. Ma tutto è bene quel che finisce bene.
Akin gira una commedia senza pretese, ma tutto sommato divertente, sui temi dell'importanza dei sogni e della difficoltà di realizzarli, della caparbia intraprendenza giovanile e dell'edonismo spensierato (è un film in cui si ascolta buona musica, si beve tanto, si mangia bene, non manca il sesso), con qualche spunto di polemica sociale (contrapponendo una borghesia avida, volgare e senza scrupoli all'estro romantico e creativo della gioventù squattrinata). Il punto debole è in una sceneggiatura che scoppietta un po'troppo (con qualche caduta di stile, come nella sequenza dei bagordi che seguono un dessert particolarmente afrodisiaco) prima di prendere la scorciatoia più facile per un finale scontato, che mette tutto a posto. Sicuramente migliore il lavoro sui personaggi, alcuni ben riusciti: il vecchietto affittuario di Zinos è, con la sua scurrile irriverenza, assolutamente esilarante.
Premiato a Venezia col Leone d'Argento. Il titolo è il nome del locale.




Regia: Fatih Akin
Anno: 2009


Giudizio: **1/2

martedì 11 gennaio 2011

Se mi lasci ti cancello


Clementine (Kate Winslet), dopo aver lasciato il fidanzato Joel (Jim Carrey), si è rivolta ad una clinica specializzata nel cancellare ricordi per eliminarne ogni traccia dalla propria mente. Quando Joel lo scopre decide di fare altrettanto, ma mentre il processo è ancora in corso si pente e cerca di interromperlo.
Commedia romantica firmata dal quasi esordiente Michel Gondry (su sceneggiatura di Charlie Kaufman, condivisibilmente premiata con l'Oscar) ed incentrata sull'analisi dei meccanismi della psiche umana, tanto che buona parte del film si svolge letteralmente nella mente di Joel. Dell'originalità della trovata va dato atto: consente una libertà narrativa e visionaria che raggiunge buoni risultati e dona momenti di grazia surreale nell'affrontare i temi psicologici del ruolo rivestito dalla memoria nel definire l'identità personale, del peso dell'incoscio nell'orientamento delle scelte, della ripetitività degli sbagli. Finale romanticamente ottimista, ma non sdolcinato.
Idiota e fuorviante il titolo italiano, lontano dall'originale Eternal sunshine of the spotless mind (da un verso del poeta inglese Alexander Pope), ben più raffinato.




Regia: Michel Gondry
Anno: 2004


Giudizio: ***

sabato 8 gennaio 2011

I Gatti Persiani


Negar (Negar Sheghaghi) e Ashkan (Ashkan Koohzad) sono una giovane coppia di musicisti rock iraniani ed hanno un sogno: lasciare il proprio paese per esibirsi in Occidente. Con l'aiuto dello scaltro Nader (Hamed Behdad) cercano di procurarsi visti e passaporti falsi e di trovare gli altri membri necessari per comporre la band. Comincia così un curioso viaggio negli ambienti della sottocultura musicale underground di Teheran, alla scoperta dei generi più vari (dall'indie al metal, dal pop al rap e così via) e degli spazi clandestini in cui i gruppi alternativi possono suonare sfuggendo alle autorità: negli scantinati, sopra i tetti dei palazzi, in campagna o in edifici in costruzione, perfino in una stalla fra le vacche. Oscillando fra il documentario ed il videoclip, Ghobadi racconta il doppio volto dell'Iran, la nuova generazione di giovani ansiosi di libertà di pensiero e di espressione che cerca di sfuggire con creatività ed inventiva alla morsa di una tirannia teocratica ossessionata dal controllo, costretti a vivere l'incubo continuo delle autorizzazioni che non arrivano mai, di una censura ottusa, dei vicini che fanno la spia e delle perquisizioni della polizia. Nel tristissimo finale sta la forza della denuncia: oggi in Iran non ci si può permettere di avere un sogno. Fantastica la sequena dell'interrogatorio di Nader che, trovato in possesso di centinaia di dvd proibiti ed una bottiglia di liquore, usa tutta la propria stoffa da commediante per discolparsi.
Girato senza permessi ed in soli 17 giorni, ha costretto Ghobadi all'autoesilio per evitare il carcere.



Regia: Bahman Ghobadi
Anno: 2009


Giudizio: ***

mercoledì 5 gennaio 2011

La Prima Cosa Bella


La livornese Anna (Stefania Sandrelli al presente, Micaela Ramazzotti da giovane) è in punto di morte e la figlia Valeria (Claudia Pandolfi) chiama al suo capezzale il fratello Bruno (Valerio Mastrandrea), professore insoddisfatto ed inquieto, nella speranza di ricostruire il rapporto fra questi e l'anziana madre, compromesso molto tempo prima. Mentre in lunghi flashback Bruno rivive i ricordi dell'infanzia, l'esplosiva ed incontenibile vitalità di Anna, la gelosia paterna, la separazione dei genitori, le tribolazioni, il rapporto di amore e odio con la madre (donna bella e dai costumi disinvolti) fino alla rottura dovuta ad incomprensioni di quand'era adolescente, i nodi del passato vengono al pettine (c'è un fratellastro, mai conosciuto prima) e tutti i conflitti irrisolti si sanano in un epilogo melenso.
Se l'intenzione non era malvagia nel voler mettere in scena il bilancio esistenziale e degli affetti di un uomo infelice perchè ancora incapace di dimenticare il passato e trovare una propria autentica identità, ripercorrendo gli eventi all'origine del suo male interiore (intenzione che riesce soprattutto nel tratteggiare il rapporto con la sorella Valeria, forse il più sincero del film), i cliché abbondano, la sceneggiatura strizza l'occhio al pubblico amante dei sentimentalismi, il finale delude (ogni dissidio è conciliato, ogni tensione rilasciata, ogni scelta è quella giusta), il messaggio di fondo (la vita va vissuta sull'onda delle emozioni più genuine, senza compromessi) è piuttosto scontato. Salviamo qualche battuta divertente ed una prima parte tutto sommato discreta, ma non si va comunque oltre il classico esempio di commediola italiana, provinciale e furbetta, che trova la soluzione a tutti i problemi nell'atteggiamento scanzonato (e un po' nostalgico) e nel calore protettivo della famiglia.
Il titolo rimanda ad una canzone della colonna sonora. Candidato italiano all'Oscar 2011 come miglior film straniero: chi l'ha selezionato preferendolo al capolavoro L'uomo che verrà si presta ad essere tacciato di autolesionismo.




Regia: Paolo Virzì
Anno: 2010


Giudizio: **



martedì 4 gennaio 2011

La Sorgente del Fiume


Grecia, 1919: la rivoluzione bolscevica ha costretto la comunità greca di Odessa a far ritorno in patria e stabilirsi presso la foce di un grande fiume. Fra i profughi vi sono i giovani Alexis (Nikos Poursanidis) ed Eleni (Alexandra Aidini), che si amano, ma sono costretti a fuggire perchè Eleni avrebbe dovuto sposare il padre di lui, Spyros (Vassilis Kolovos). Stabilitisi a Salonicco, Alexis si guadagna da vivere facendo il musicista, ma dopo la salita al potere del dittatore Metaxas nel '36 decide di avventurarsi in America, in cerca di fortuna. Allo scoppio delle Seconda Guerra Mondiale si arruola nell'esercito americano, mentre i due figli della coppia si schierano su fronti opposti nella guerra civile che seguì la liberazione. Finale dolente.
Quella di Theo Angelopoulos, il più celebrato regista greco di sempre, non è firma che passa inosservata, così come il suo stile, elegante e ricercato, che colpisce ed affascina per l'incedere lento e grave, per l'uso magistrale del piano sequenza e dei campi lunghi nel definire lo spazio scenico e scandire i ritmi del movimento, per la perfezione delle scenografie, per la potenza visiva di composizioni quasi pittoriche la cui armonia è curata in ogni dettaglio (luce, colore, volume), per la ricchezza simbolica (qui l'acqua, elemento onnipresente in quasi ogni scena, al tempo stesso richiama il pianto e quindi il lutto, ma anche l'incessante fluire del tempo e la consustanzialità di tutte le cose). Monumentale è la definzione più naturale per la suo opera (già nella durata di quasi tre ore), primo capitolo di una trilogia sulla storia greca moderna, che ambisce a raccontare i tremendi avvenimenti del '900 attraverso i drammi privati di una saga familiare, apertamente ispirata alla tradizione della tragedia classica (un padre ed un figlio che si contendono la donna amata come nell'Edipo Re, due fratelli che combattono l'uno contro l'altro come nell'Antigone) ed ai suo grandi temi: l'amore, la morte, l'esilio, la guerra, il fato. E tale influenza si fa evidente nel carattere apertamente teatrale di un film il cui set-palcoscenico (evidente dichiarazione di poetica è dunque la sequenza nel teatro in cui alloggiano gli sfollati) ospita performance di attori dalla recitazione più enfatizzata ed espressiva che verosimile ed i cui dialoghi puntano più all'intensità che alla naturalezza. Comprensibilmente tanta affettazione manieristica potrebbe non convincere, se la suggestiva bellezza delle immagini e la memorabilità di molte sequenze (dall'arrivo dei profughi con cui si apre il film al corteo funebre, dall'albero carico di pecore straziate all'inondazione del villaggio ed alle donne in lutto che cercano le spoglie dei propri cari) non fosse un più che valido compenso. L'urlo struggente di Eleni che chiude il film è un terribile atto di accusa contro la follia dell'uomo e della Storia e la crudeltà del destino. La colonna sonora composta dalle musiche di Eleni Karaindrou dà un contributo importante all'atmosfera malinconica che percorre tutto il film, carica del presagio di perdite e sventure.



Regia: Theo Angelopoulos
Anno: 2004


Giudizio: ****

sabato 1 gennaio 2011

Niente Da Nascondere


La serena tranquillità familiare del conduttore televisivo Georges (Daniel Auteuil) e di sua moglie Anne (Juliette Binoche) è turbata quando iniziano a ricevere strani disegni e videocassette anonime con riprese effettuate da qualcuno che li spia. Allorché Georges intuisce chi può esserne l'autore, un oscuro episodio del suo passato torna alla luce.
Una regia accurata (premiata a Cannes) che regala inquadrature belle e funzionali (come nella sequenza in ascensore, nella parte finale del film) permette ad Haneke di costruire una sorta di thriller non convenzionale in cui si respirano le atmosfere ambigue e paranoiche tipiche di questo autore e che mantiene intatta la tensione fino all'inquietante ed enigmatica rivelazione finale, tocco da maestro di un regista che predililige le domande alle risposte e confondere le acque piuttosto che soddisfare le aspettative dello spettatore. La riflessione di Haneke è provocatoria come per lui usuale e tocca molti temi, dal lato oscuro della psiche umana all'inconoscibilità della verità, dal ruolo ed i limiti dell'osservazione (e, quindi, del cinema) ai meccanismi di negazione e rimozione del senso di colpa, a cui conferisce una dimensione personale più immediata (negazione della responsabilità individuale), alludendo però anche ad una dimensione sociale (negazione dell'iniquità della condizione di privilegio del ceto benestante), una nazionale (rimozione delle conseguenze nefaste del colonialismo francese) ed una universale (rimozione delle colpe del mondo occidentale nei confronti degli ultimi della Terra): è una riflessione che vuole colpire al cuore il volto pulito del mondo borghese e metterne a nudo falsità ed ipocrisie (nessuno è senza macchia), costringendo lo spettatore all'immedesimazione (in questa direzione va, ad esempio, la scelta di annullare la colonna sonora) ed a fare i conti con la propria coscienza. Fra i momenti più intensi, la scena del suicidio di Majid (Maurice Benichou) ed il confronto/scontro fra suo figlio e Georges. Come con la maggior parte dei film di Haneke, non si resta indifferenti.


Haneke mostra la fragilità del mondo contemporaneo [...] con la consueta, diabolica abilità nel tratteggiare al paura, la violenza e il senso di colpa che sconvolgono le certezze borghesi. (Dizionario dei Film Mereghetti)



Regia: Michael Haneke
Anno: 2005


Giudizio: ****