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domenica 9 dicembre 2012
Pavilion
L'opera prima di Tim Sutton è in bilico sul filo del confine fra finzione e documentario: attori adolescenti non professionisti vengono seguiti nei lori ozi e svaghi, nel loro girovagare, nello svogliato scambio di battute da una telecamera-testimone che osserva senza mai sottolineare. I temi del mondo adolescenziale (mancanza di validi riferimenti, inadeguatezza o latitanza degli adulti, anaffettività, apatia comunicativa, rapporto con il corpo), così come l'atmosferta vacua e sospesa ricordano molto (troppo) da vicino l'opera di Gus Van Sant. Premio per la critica (ex-aequo) al TFF.
Regia: Tim Sutton
Anno: 2012
Giudizio: ***
martedì 4 dicembre 2012
Su Re
[Locandina non disponibile]
La passione di un Cristo brutto e sofferente raccontata attraverso i differenti punti di vista degli evangelisti e calata nell'ambientazione brulla dei panorami sardi. In un andirivieni temporalmente non lineare in cui gli stessi fatti ed i medesimi volti sono riproposti più e più volte con sfumature sempre diverse, il film sperimentale di Columbu riesce a rintracciare, in una delle storie più note e raccontate di sempre, nuovi ed inaspettati significati. Lo spettatore, rapito da un'esperienza altamente suggestiva a livello sensoriale, tanto visivo quanto uditivo, si trova di fronte ad un piccolo capolavoro di umanità e spiritualità.
Ne esce un film affascinante e misterioso, dove la "durezza" della lingua e della natura sarda moltiplicano la forza emotiva della pagina evangelica (Paolo Mereghetti, www.corriere.it)
Regia: Giovanni Culumbu
Anno: 2012
Giudizio: ****
domenica 7 novembre 2010
Kill Me Please

Il dottor Kruger (Aurelien Recoing) è il direttore di una clinica in cui si pratica il suicidio assistito: un sorso di veleno è offerto come viatico per il sonno eterno a chi ha deciso di farla finita, salvo accertarsi prima dell'effettiva volontà di morire del paziente. Già frequentata da personaggi eccentrici ed un po' svitati, la clinica diverrà oggetto di ostilità da parte degli abitanti della zona, innescando così un gioco al massacro in cui finiranno per morire praticamente tutti.
Qualunque tentativo di riassumere banalmente in termini di trama questa commedia nera del poco noto regista belga Olias Barco è inevitabilmente riduttivo: il suo valore sta nella galleria di pazienti bizzarri e strampalati che popolano la clinica, chi vuole morire durante un ultimo amplesso, chi cantando la Marsigliese, chi fingendosi un soldato in Vietnam, chi in realtà non vuole morire affatto; nelle atmosfere assurde e grottesche, nella paradossalità delle situazioni e dei dialoghi, nel finale tragicomico dal sapore apocalittico; nel fascino di una fotografia in bianco e nero un po' retrò; nello sguardo ironico (il discorso di Kruger sul costo sociale del suicidio, il suo interesse per le eredità dei pazienti) e nei momenti più esilaranti (il tale che racconta di aver perso la moglie a poker!). Fra le righe, la critica alla superficialità con cui talvolta si sposano convinzioni senza indagarne fino in fondo le conseguenze (il mito della "dolce morte") ed il ritratto di un'umanità squinternata, di cui, mostrandoci le stravaganze nella morte, Barco ci narra indirettamente le manie e le nevrosi in vita. Marco Aurelio d'oro al Festival di Roma.
Oggetto cinematografico non ben identificato. Proprio per questo, da vedere (Alessio Guzzano, Grazia)
Regia: Olias Barco
Anno: 2010
Giudizio: ***1/2
In Un Mondo Migliore

Elias (Markus Rygaard) è un ragazzino fragile ed introverso, a scuola lo prendono in giro e soffre per la separazione dei genitori. Christian (Wiliam Johnk Nielsen), invece, ha reagito al dolore per la perdita della madre malata di cancro con rabbia, è in collera con il padre e furioso con il mondo. Diventeranno amici e si troveranno a dover compiere delle scelte che metteranno a rapentaglio le loro stesse vite, mentre i genitori tenteranno di rimettere ordine nelle proprie disorientate esistenze.
La regista danese Susanne Bier si è trovata per le mani una materia narrativa ricca e complessa ed ha saputo muoversi con competenza: non era facile domare l'intreccio di tante storie ed affrontare tutti i temi di questo dramma intenso e, per molti aspetti, convincente. Il motore del film è, almeno nella prima parte, una riflessione interessantissima sui limiti dell'approccio filantropico e umanistico, dell'etica del perdono e del "porgere l'altra guancia" in un mondo dominato dalla violenza e dalla prevaricazione, sviluppata attraverso un parallelismo sorprendente ed incisivo fra gli episodi di bullismo in una scuola danese, l'arroganza rozza e manesca di un operaio di un'autofficina, la crudeltà sguaiata di un signore della guerra africano, tanto da essere quasi un peccato che il ragionamento venga abbandonato nella parte finale, in cui dominano invece altri temi (l'incomunicabilità fra genitori e figli, la difficoltà di educare, il disagio esistenziale, il conflitto interiore). Purtroppo, l'anello debole è una sceneggiatura studiata a tavolino, didascalica nel far accadere sempre ciò che più serve al racconto, ridimensionata da un finale troppo conciliante e risolutivo.
Regia: Susanne Bier
Anno: 2010
Giudizio: ***
mercoledì 3 novembre 2010
Rabbit Hole

Becca (Nicole Kidman) e Howie (Aaron Eckhart) hanno vissuto la tragedia della morte del figlio, investito accidentalmente da un giovane (Miles Teller). Nonostante siano trascorsi ormai otto mesi, la coppia vive ancora una crisi profonda, accentuata dalla gravidanza della sorella di Becca, Izzy (Tammy Blanchard).
Ispirandosi ad un'opera teatrale di Lindsay-Abaire (che ha anche curato la scenaggiatura), Mitchell gira un dramma intimista su un tema delicato come la perdita di un figlio, analizzando al microscopio le dinamiche psicologiche ed emotive di Becca ed Howie (tipica coppia borghese della middleclass americana) e le inevitabili difficoltà nel superare il trauma ed elaborare il lutto. Se Howie sembra rimuovere il dolore sforzandosi di vivere come se nulla fosse di giorno e passando insonne la notte davanti ai video del piccolo Danny, Becca lo affronta invece in modo più diretto e viscerale, senza nascondere la rabbia e la sofferenza. Entrambi cercano una via d'uscita dall'angoscia insopportabile che ne sta sgretolando le esistenze, l'uno rifugiandosi nella distrazione di una relazione che resterà platonica, l'altra cercando e trovando un contatto con il colpevole involontario della disgrazia, il giovanissimo Jason (sicuramente questo uno degli elementi più originali ed emozionanti del film). Lo spettatore si strugge e si commuove (pur se Mitchell è ammirevole nel trattenersi da facili patetismi) mentre assiste all'impotenza addolorata di due essere umani in scacco, a come la tragedia smascheri ipocrisie familiari e religiose (Becca definisce Dio un "coglione sadico" e lo paragona al padre, sembra credere che il fratello eroinomane abbia meritato la morte e che la sorella non meriti un figlio) e cortocircuiti comunicativi (l'amica di famiglia che ancora non ha trovato il coraggio di chiamare). Il messaggio che resta è che quella di Becca ed Howie, come quella di quanti si trovano durante la propria vita ad affrontare un'esperienza atroce e e sconvolgente, è destinata ad essere una lotta senza fine nello sforzo di andare avanti, fatta di piccoli successi e cocenti sconfitte, senza mai sapere cosa ci sarà davvero dopo, consapevoli che il dolore col tempo diviene un mattone il cui peso può diventare sopportabile, ma di cui non ci si potrà mai liberare. Il titolo rimanda alle Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie ed allude ad un viaggio verso l'ignoto (oltre a riprendere il titolo del libro a fumetti che Jason regala a Becca).
Regia: John Cameron Mitchell
Anno: 2010
Giudizio: ****
martedì 2 novembre 2010
The Social Network

Basato sul libro Miliardari per caso di Ben Mezrich: la storia di Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg) e di come, inventando il social network virtuale più famoso al mondo (Facebook), abbia contribuito a rimodellare le interazioni umane e la realtà moderna, oltre a divenire il più giovane miliardario del pianeta. Storia raccontata attraverso il filo delle controversie legali che Zuckerberg ha dovuto affrontare, accusato di aver rubato l'idea ad altri studenti di Harvard e di aver ingannato il cofondatore Eduardo Saverin (Andrew Garfield), estromesso dai vertici della società con uno scaltro espediente finanziario.
Il successo di pubblico e, soprattutto, di critica che ha incontrato questa pellicola di Fincher è per certi versi sorprendente: si è scelto un registro non particolarmente originale, a metà fra il documentarismo ed il film giudiziario (confronti continui fra i personaggi, dialoghi fitti ed incisivi, deposizioni ricostruite tramite lunghi flashback), si sono condensati molti fatti e caratteri in un tempo relativamente breve (un paio d'ore circa), si è peccato inevitabilmente di affrettatezza ed approssimazione nella caratterizzazzione delle figure secondarie. Eppure, non si fatica a cogliere ciò che veramente colpisce di The Social Network, vale a dire la vicinanza (nello stile, nella regia) a quella modernità che vuole raccontare (non a caso è il primo film ad essere girato con telecamere digitali a risoluzione 4096x2160), "l'aderenza quasi mimetica alla materia narrativa, qui raggiunta grazie alla definizione di uno spazio visivo [che è] la cifra visuale di ogni ambito della contemporaneità" (Franco Marineo, I Duellanti); la capacità di raffigurare un'istantanea veracissima del neocapitalismo della new economy e del boom informatico, del volto nuovo dell'american dream, di quella mitologia di tipi che fanno ormai parte dell'immaginario ultramoderno made in USA: il nerd sociopatico ed indifferente, ma ambizioso fino all'ossessione (Mark), l'elite aristocratica e lobbistica dei figli di papà che frequentano i club più esclusivi, l'arrivista cinico e spietato ma col fascino dell'uomo di mondo (Sean Parker, interpretato da Justin Timberlake), il perdente debole e frustrato, ma dalle emozioni più umane (Eduardo). Fincher racconta bene un viaggio nel presente/futuro per coglierne i tratti salienti, le differenze rispetto al passato (anche recente): quelli che ci mostra non sono più gli squali in giacca e cravatta degli anni novanta, ma ragazzini smisuratamente narcisisti, alternativi eppure conformissimi, individualisti, ossessionati dai vecchi miti dell'edonismo, del sesso, dell'evasione dal sè (alcol, droga), come bloccati nel relazionarsi al prossimo, sia questi una ragazza o l'amico di una vita. Se, quindi, indubbiamente qualcosa manca al film per farne una pietra miliare, lo si recupera, almeno in parte, sul piano del rinnovamento del linguaggio cinematografico e della freschezza di uno sguardo che fa riflettere su cosa stiamo, ineluttabilmente, diventando.
Non è Facebook quello di cui Social Network soprattutto racconta. Piuttosto Fincher gira un Wall Street aggiornato a trent'anni dopo, e più disperante. (Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore)
Regia: David Fincher
Anno: 2010
Giudizio: ***
Una Vita Tranquilla

Rosario (Toni Servillo) ha un passato da camorrista, ma da quindici anni, per sfuggire a morte certa, ha cambiato identità e si è trasferito in Germania, dove ha cancellato i ponti con il passato, ha imparato il mestiere del ristoratore, si è rifatta una famiglia e con essa una vita. A sconvolgere la sua tranquillità è però l'arrivo del figlio Diego (Marco D'Amore) , che gli chiede accoglienza celando il vero scopo della sua visita: compiere un omicidio. Quando Rosario vede scoperta la propria identità da chi lo vuole morto, dovrà ancora una volta fare tabula rasa per sfuggire al passato.
Cupellini gira un noir che guarda all'attualità (penetrazione camorristica nell'industria dello smaltimento dei rifiuti, strage di Duisburg), ma che sa affrontare temi assoluti: l'impossibilità di eludere le conseguenze (morali) dei propri trascorsi, l'illusorietà del cambiamento e del ravvedimento, la fatalità del destino. Dopo una prima parte preparatoria e più incerta, il film decolla nella seconda, quando la narrazione si fa più incalzante, la recitazione tesa (bravi gli attori) ben trasmette la sensazione di ineluttabilità con cui gli eventi sembrano precipatare drammaticamente verso un punto di non ritorno e soprattutto esplode, potente e tragico, il forte contrasto fra un figlio pieno di rancore per l'abbandono (tanto da mettere in atto quella che assomiglia ad una vendetta) ma in fondo fragile ed un padre combattuto dal dissidio interiore fra i rimorsi e l'istinto di sopravvivenza, la paura di perdere l'illusione di felicità che si è faticosamento costruito, lasciandosi alle spalle un peso impossibile da portare. E'stato abile Cupellini per la cura messa nella regia, meno per la sceneggiatura che nel finale non nasconde qualche piccolo buco.
Regia: Claudio Cupellini
Anno: 2010
Giudizio: ***1/2
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