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lunedì 29 ottobre 2012

This Must Be the Place



L'ex rock star Cheyenne scopre alla morte del padre, ebreo superstite all'esperienza dei campi di concentramento e con il quale non parla da trent'anni, che questi aveva speso gran parte della vita nel vano tentativo di rintracciare il proprio aguzzino nazista. Sarà lui a proseguirne la ricerca.
Classico percorso di formazione scandito dalle tappe del viaggio, in cui il protagonista (interpretato da un come sempre ottimo Sean Penn), riprendendo e portando a termine la missione paterna, finisce per trovare se stesso e la maturità. Film di incontri e vagabondaggi, spesso riuscito e ben girato, rimane tuttavia in qualche misura irrisolto nello sfiorare tematiche profonde (l'Olocausto, i suicidi giovanili, la depressione) senza però esaurirle.

Regia: Paolo Sorrentino
Anno: 2011



Giudizio: ***

mercoledì 12 gennaio 2011

Soul Kitchen


Il giovane greco Zinos (Adam Bousdoukos) gestisce ad Amburgo una taverna che è poco più di una bettola, ma l'arrivo di un cuoco raffinato e un po' strambo lo trasformerà in un locale di gran moda. Intanto Zinos è alle prese con mille guai: è in bolletta, la bella fidanzata lo lascia, il mal di schiena lo tortura, ha il fisco e l'ufficio d'igiene alle calcagna, il fratello Illias (Moritz Bleibtreu), appena uscito di prigione, si gioca a poker il ristorante. Ma tutto è bene quel che finisce bene.
Akin gira una commedia senza pretese, ma tutto sommato divertente, sui temi dell'importanza dei sogni e della difficoltà di realizzarli, della caparbia intraprendenza giovanile e dell'edonismo spensierato (è un film in cui si ascolta buona musica, si beve tanto, si mangia bene, non manca il sesso), con qualche spunto di polemica sociale (contrapponendo una borghesia avida, volgare e senza scrupoli all'estro romantico e creativo della gioventù squattrinata). Il punto debole è in una sceneggiatura che scoppietta un po'troppo (con qualche caduta di stile, come nella sequenza dei bagordi che seguono un dessert particolarmente afrodisiaco) prima di prendere la scorciatoia più facile per un finale scontato, che mette tutto a posto. Sicuramente migliore il lavoro sui personaggi, alcuni ben riusciti: il vecchietto affittuario di Zinos è, con la sua scurrile irriverenza, assolutamente esilarante.
Premiato a Venezia col Leone d'Argento. Il titolo è il nome del locale.




Regia: Fatih Akin
Anno: 2009


Giudizio: **1/2

martedì 11 gennaio 2011

Se mi lasci ti cancello


Clementine (Kate Winslet), dopo aver lasciato il fidanzato Joel (Jim Carrey), si è rivolta ad una clinica specializzata nel cancellare ricordi per eliminarne ogni traccia dalla propria mente. Quando Joel lo scopre decide di fare altrettanto, ma mentre il processo è ancora in corso si pente e cerca di interromperlo.
Commedia romantica firmata dal quasi esordiente Michel Gondry (su sceneggiatura di Charlie Kaufman, condivisibilmente premiata con l'Oscar) ed incentrata sull'analisi dei meccanismi della psiche umana, tanto che buona parte del film si svolge letteralmente nella mente di Joel. Dell'originalità della trovata va dato atto: consente una libertà narrativa e visionaria che raggiunge buoni risultati e dona momenti di grazia surreale nell'affrontare i temi psicologici del ruolo rivestito dalla memoria nel definire l'identità personale, del peso dell'incoscio nell'orientamento delle scelte, della ripetitività degli sbagli. Finale romanticamente ottimista, ma non sdolcinato.
Idiota e fuorviante il titolo italiano, lontano dall'originale Eternal sunshine of the spotless mind (da un verso del poeta inglese Alexander Pope), ben più raffinato.




Regia: Michel Gondry
Anno: 2004


Giudizio: ***

martedì 4 gennaio 2011

La Sorgente del Fiume


Grecia, 1919: la rivoluzione bolscevica ha costretto la comunità greca di Odessa a far ritorno in patria e stabilirsi presso la foce di un grande fiume. Fra i profughi vi sono i giovani Alexis (Nikos Poursanidis) ed Eleni (Alexandra Aidini), che si amano, ma sono costretti a fuggire perchè Eleni avrebbe dovuto sposare il padre di lui, Spyros (Vassilis Kolovos). Stabilitisi a Salonicco, Alexis si guadagna da vivere facendo il musicista, ma dopo la salita al potere del dittatore Metaxas nel '36 decide di avventurarsi in America, in cerca di fortuna. Allo scoppio delle Seconda Guerra Mondiale si arruola nell'esercito americano, mentre i due figli della coppia si schierano su fronti opposti nella guerra civile che seguì la liberazione. Finale dolente.
Quella di Theo Angelopoulos, il più celebrato regista greco di sempre, non è firma che passa inosservata, così come il suo stile, elegante e ricercato, che colpisce ed affascina per l'incedere lento e grave, per l'uso magistrale del piano sequenza e dei campi lunghi nel definire lo spazio scenico e scandire i ritmi del movimento, per la perfezione delle scenografie, per la potenza visiva di composizioni quasi pittoriche la cui armonia è curata in ogni dettaglio (luce, colore, volume), per la ricchezza simbolica (qui l'acqua, elemento onnipresente in quasi ogni scena, al tempo stesso richiama il pianto e quindi il lutto, ma anche l'incessante fluire del tempo e la consustanzialità di tutte le cose). Monumentale è la definzione più naturale per la suo opera (già nella durata di quasi tre ore), primo capitolo di una trilogia sulla storia greca moderna, che ambisce a raccontare i tremendi avvenimenti del '900 attraverso i drammi privati di una saga familiare, apertamente ispirata alla tradizione della tragedia classica (un padre ed un figlio che si contendono la donna amata come nell'Edipo Re, due fratelli che combattono l'uno contro l'altro come nell'Antigone) ed ai suo grandi temi: l'amore, la morte, l'esilio, la guerra, il fato. E tale influenza si fa evidente nel carattere apertamente teatrale di un film il cui set-palcoscenico (evidente dichiarazione di poetica è dunque la sequenza nel teatro in cui alloggiano gli sfollati) ospita performance di attori dalla recitazione più enfatizzata ed espressiva che verosimile ed i cui dialoghi puntano più all'intensità che alla naturalezza. Comprensibilmente tanta affettazione manieristica potrebbe non convincere, se la suggestiva bellezza delle immagini e la memorabilità di molte sequenze (dall'arrivo dei profughi con cui si apre il film al corteo funebre, dall'albero carico di pecore straziate all'inondazione del villaggio ed alle donne in lutto che cercano le spoglie dei propri cari) non fosse un più che valido compenso. L'urlo struggente di Eleni che chiude il film è un terribile atto di accusa contro la follia dell'uomo e della Storia e la crudeltà del destino. La colonna sonora composta dalle musiche di Eleni Karaindrou dà un contributo importante all'atmosfera malinconica che percorre tutto il film, carica del presagio di perdite e sventure.



Regia: Theo Angelopoulos
Anno: 2004


Giudizio: ****

sabato 1 gennaio 2011

Niente Da Nascondere


La serena tranquillità familiare del conduttore televisivo Georges (Daniel Auteuil) e di sua moglie Anne (Juliette Binoche) è turbata quando iniziano a ricevere strani disegni e videocassette anonime con riprese effettuate da qualcuno che li spia. Allorché Georges intuisce chi può esserne l'autore, un oscuro episodio del suo passato torna alla luce.
Una regia accurata (premiata a Cannes) che regala inquadrature belle e funzionali (come nella sequenza in ascensore, nella parte finale del film) permette ad Haneke di costruire una sorta di thriller non convenzionale in cui si respirano le atmosfere ambigue e paranoiche tipiche di questo autore e che mantiene intatta la tensione fino all'inquietante ed enigmatica rivelazione finale, tocco da maestro di un regista che predililige le domande alle risposte e confondere le acque piuttosto che soddisfare le aspettative dello spettatore. La riflessione di Haneke è provocatoria come per lui usuale e tocca molti temi, dal lato oscuro della psiche umana all'inconoscibilità della verità, dal ruolo ed i limiti dell'osservazione (e, quindi, del cinema) ai meccanismi di negazione e rimozione del senso di colpa, a cui conferisce una dimensione personale più immediata (negazione della responsabilità individuale), alludendo però anche ad una dimensione sociale (negazione dell'iniquità della condizione di privilegio del ceto benestante), una nazionale (rimozione delle conseguenze nefaste del colonialismo francese) ed una universale (rimozione delle colpe del mondo occidentale nei confronti degli ultimi della Terra): è una riflessione che vuole colpire al cuore il volto pulito del mondo borghese e metterne a nudo falsità ed ipocrisie (nessuno è senza macchia), costringendo lo spettatore all'immedesimazione (in questa direzione va, ad esempio, la scelta di annullare la colonna sonora) ed a fare i conti con la propria coscienza. Fra i momenti più intensi, la scena del suicidio di Majid (Maurice Benichou) ed il confronto/scontro fra suo figlio e Georges. Come con la maggior parte dei film di Haneke, non si resta indifferenti.


Haneke mostra la fragilità del mondo contemporaneo [...] con la consueta, diabolica abilità nel tratteggiare al paura, la violenza e il senso di colpa che sconvolgono le certezze borghesi. (Dizionario dei Film Mereghetti)



Regia: Michael Haneke
Anno: 2005


Giudizio: ****

mercoledì 29 dicembre 2010

La Classe


Ispirato ad un libro di Francois Begaudeau (passato di insegnante e qui anche attore protagonista) ed interamente girato "tra le mura" (come recita il titolo originale, Entre les murs) di una scuola media della periferia parigina. E' un film-documentario sulla condizione del sistema scolastico francese, affetto da problemi di integrazione (in classe vi sono francesi, malesi, antillani, cinesi, ecc) ed alle prese con l'insolente indolenza degli studenti da un lato e la stanca rassegnazione dei professori dall'altro. Cantet non giustifica i primi (pur mostrandone qualità che gli adulti non sanno cogliere: c'è chi, insospettabilmente, legge Platone!), nè si schiera coi secondi, di cui sembra comprendere la frustrazione ma ne riconosce impietosamente l'incapacità di penetrare la complessità enigmatica del mondo adolescenziale (con la complicazione della promiscuità etnica che mette in crisi il concetto stesso di identità condivisa). Se a fronte del precipitare di una situazione che diviene ogni giorno più ingestibile e fuori controllo (quasi nessuno studia, la disciplina non esiste, il confronto fra alunni ed insegnanti è un duello quotidiano all'insegna dell'incomunicabilità, dell'ostilità, della perdita di fiducia) il corpo docente non sa produrre idee migliori di una patetica "patente a punti" (per poi passare frettolosamente a discutere il più urgente problema del distributore del caffè!), è chiaro che la responsabilità è collettiva e la società non può esimersi dal farsene carico. Tanto che l'ammonimento di Cantet sembra voler essere più generale, con un occhio rivolto a certe soluzioni, sbrigativamente autoritarie, elaborate dagli ambienti più conservatori della società francese in risposta alle difficili sfide della modernità. Produzione intelligente ed interessante, La Classe paga però un certo squilibrio in favore del momento dialogico (è un film parlato prima che recitato) e forse si limita troppo nel mostrare determinati comportamenti e malesseri, senza riuscire a coglierne fino in fondo ragioni ed origini. Palma d'Oro a Cannes, primo film francese dal 1987. Il cast è interamente composto da reali insegnanti, studenti e relativi genitori.


Regia: Laurent Cantet
Anno: 2008


Giudizio: ***

martedì 21 dicembre 2010

Still Life


Il minatore Han (Han Sanming) cerca la moglie e la figlia, che non vede da sedici anni. L'infermiera Shen (Zhao Tao) è invece sulle tracce del marito, di cui non ha notizie da due. Entrambe le ricerche avranno successo, ma se in un caso l'incontro sarà un ritrovarsi, nell'altro durerà soltanto lo spazio di un addio. Sullo sfondo la costruzione della monumentale diga delle Tre Gole sul fiume Azzurro.
C'è più il piglio del documentarista che quello del narratore in questo malinconico film del regista cinese Jia Zhang-ke che racconta le storie, speculari ma opposte, di due anime in pena, del loro tentativo di recuperare un passato che non c'è più per poter ricostruire, a partire da esso, una nuova vita, un altro futuro. Ma se la narrazione, che si dipana lenta e senza sussulti ma non senza divagazioni ed incertezze, non convince più di tanto (così come i dialoghi, stringati e inespressivi), più interessante è senz'altro l'immagine offerta, suggestiva e realistica, di una Cina faticosamente avviata verso la modernità (la denuncia del cui costo è il messaggio politico sotteso), del contrasto fra oggetti, persone, ambienti ed atmosfere che sembrano sospesi e fuori dal tempo ed il procedere inesorabile ed incessante del progresso tecnologico e delle trasformazioni sociali. La bellezza figurativa con cui Jia Zhang-ke ha ritratto il decadente paesaggio urbano dei ruderi abbandonati ed in via di demolizione gli è valso il Leone d'Oro a Venezia. Spunti surreali e la significativa metafora finale dell'equilibrista completano il quadro.


Due tristi storie d’amore narrate con uno stile essenziale e minimalista fanno da contrappunto a uno spaccato sulla realtà sociale della Cina odierna, ritratta [...] attraverso i toni spenti e opachi di un paesaggio grigio e umido, specchio delle due anime inquiete protagoniste del film (Chiara Renda, mymovies.it)



Regia: Jia Zhang-ke
Anno: 2006


Giudizio: **1/2

mercoledì 15 dicembre 2010

Il Matrimonio di Lorna


L'albanese Lorna (Arta Dobroshi) ha sposato il tossicodipendente Claudy (Jeremie Renier) in un matrimonio combinato, per ottenere la cittadinanza belga. Claudy, che se ne è innamorato, trova solo in lei la forza per uscire dal tunnel della droga, ma Lorna ha già chiesto il divorzio: deve sposare un russo in un secondo matrimonio fittizio, organizzato dal poco raccomanabile tassista Fabio (Fabrizio Rongione), che non esiterà a sbarazzarsi di Claudy con una finta overdose. Ma per Lorna le cose cambiano quando scopre di essere incinta di Claudy.
Quello dei fratelli Dardenne è un cinema che guarda a chi vive ai margini, un cinema che puzza di verità, caratterizzato da un "approccio con la realtà duro, intransigente, in cui lasciano parlare i fatti" (Il Dizionario dei Film Morandini). Un cinema che pedina i propri personaggi (nonostante il passaggio dai 16 mm alla meno mobile telecamera da 35 mm) nelle proprie personali odissee che in questo film si chiamano immigrazione, tossicodipendenza, sottobosco di illegalità piccole e grandi. Un cinema, ancora, che sa anche parlare il linguaggio umanissimo delle emozioni, come nella bella sequenza in cui Lorna si offre (in senso metaforico e carnale) a Claudy, in un gesto estremo di affettuosa pietà. Oppure quando Lorna non vuole smettere di credere a quella gravidanza immaginaria che cela un profondissimo senso di colpa, ma che è anche fuga simbolica da una realtà troppo dura e spietata, in cui anche inseguire un sogno semplice come aprire un bar col fidanzato significa doversi sporcare le mani e dimenticare ogni forma di coscienza. Premiato per la sceneggiatura a Cannes, è il terzo film in dieci anni dei Dardenne che ancora una volta hanno fatto pienamente centro.


Regia: Jean-Pierre e Luc Dardenne
Anno: 2008


Giudizio: ****

sabato 27 novembre 2010

Paranoid Park


Da un romanzo di Blake Nelson: Alex (Gabe Nevins), sedicenne di Portland, è un amante dello skateboard. Assieme ad un amico, si reca a Paranoid Park, dove si riunisce clandestinamente la comunità locale di skaters. Quando vi fa ritorno, stavolta da solo, si fa convincere a provare il brivido di saltare su un treno in corsa: sorpreso da un guardiano, lo colpisce e, involontariamente, lo uccide. Alex cercherà da una lato di cancellare tutte le prove, mentre dall'altro vivrà una crisi e cercherà di superarla raccontando tutto in lettere che non verranno mai lette da nessuno.
Gus Van Sant torna ad interessarsi, dopo il bellissimo Elephant, al mondo adolescenziale, cercando di comprendere (ma non giudicare) giovani troppo indifferenti ed amorfi e le loro paranoie (il nome del parco non è casuale) ed ossessioni. Alex è immagine di tutti i suoi coetanei: svogliato e privo di interesse per tutto fuorché lo skate (suo unico segno di affermazione identitaria), emotivamente apatico (verso i genitori, verso la fidanzatina con cui fa sesso per la prima volta senza provare nulla), assente, abbandonato alla propria fragilità, smarrito e disorientato per l'assoluto vuoto di certezze, di punti di riferimento (ha genitori separati e forse troppo immaturi) capaci di trasmettere valori o priorità morali di sorta. Significativo che la storia sia raccontata (giocando peraltro assai bene sul piano dei salti temporali) attraverso le lettere scritte da Alex, ma che finiranno bruciate: chiara metafora del cortocircuito comunicativo, dell'implosione verso un mondo tutto interiore, introverso ed impenetrabile che è malattia dell'anima di molti adolescenti (non solo americani). Se sul piano dei temi Van Sant formula domande, ma, come consueto, non dà risposte (puntando piuttosto sulla sensibilizzazione verso un tema delicato ed importante, eppure trascurato), sul piano formale si muove con eleganza, sceglie di girare in Super 8 le evoluzioni degli skaters ed usa un ralenti rilfessivo e malinconico per sottolinearne il significato più profondo. Peccato solo per la sequenza un po' splatter che mostra la morte del guardiano, piccola stonatura in una cornice stilistica di grande qualità.


Il racconto ha come oggetto il senso di colpa e l'assenza di comunicazione, la pesantezza dell'esistenza adolescente a confronto con l'aerea leggerezza del gioco, dello skateboard. (Lietta Tornabuoni, La Stampa)


Regia: Gus Van Sant
Anno: 2007


Giudizio: ***1/2

sabato 20 novembre 2010

L'Uomo Senza Passato



Appena arrivato ad Helsinki, un uomo (Markku Peltola) viene aggredito da tre malviventi e, colpito alla testa, perde la memoria. Vivo per miracolo e senza un quattrino, viene accolta da una famiglia di diseredati, si trova una sistemazione ed un lavoro, si innamora di Irma (Kati Outinen), che lavora per l'Esercito della Salvezza. Quando il passato ritorna e scopre la sua vera identità, non vuole più rinunciare alla nuova vita che si è faticosamente costruito.
Piacevole commedia del finlandese Kaurismaki, dal tono fiabesco e l'umorismo stralunato (forse il suo pregio maggiore), sul tema dell'identità, della rinascita, della seconda occasione, della solidarietà. Si respira un ottimismo di fondo, non solo del cuore, ma anche della ragione: la convinzione che nel volontarismo, nello spirito di fratellanza, nell'azione morale ispirata dalla coscienza dei singoli si può ancora rinvenire il seme di un umanità e di un mondo migliori. Nonostante l'ottusità della macchina burocratica, il cinismo del sistema bancario e del neocapitalismo globalizzato, la viscosità del sistema giudiziario, cui Kaurismaki non risparmia più di una stilettata. Lo sguardo della macchina da presa è compassionevole eppure controllato, mostra con pietà attenta un universo di poveri Cristi, di ultimi fra gli ultimi relegati ai margini della società eppure ancora capaci di aver voglia di vivere (come nella bella sequenza in cui i senzatetto ballano, mentre la banda dell'Esercito della Selvezza suona finalmente ritmi più energici e moderni). Grande successo a Cannes, nominato all'Oscar, tripudio (forse eccessivo) di critica.



Regia: Aki Kaurismaki
Anno: 2002


Giudizio: ***

giovedì 18 novembre 2010

Ferro 3


Un giovane (Hee Ja) entra di nascosto nelle case momentaneamente disabitate, vi trascorre del tempo come se ci abitasse (usa la doccia, cucina, dorme), fa ordine e pulizia, ripara gli oggetti rotti. Un giorno vi incontra per caso una ragazza maltrattata ed infelice, Sun-Hwa (Seung-yeon Lee), e la porta via con sè. Finisce nei guai con la giustizia, passa un periodo in carcere e quando ne esce ha imparato a muoversi con tale destrezza da essere invisibile: può così trasferirsi nella casa di Sun-Hwa dove i due vivono finalmente il proprio amore, all'insaputa del brutale compagno di lei.
Alla base di questo film sudcoreano vi è un'idea molto particolare, da cui la sceneggiatura prende forza: descrivere una figura insolita e poetica, un giovane che sceglie di muoversi in uno spazio impercettibile e vuoto (prima le case deserte, poi le ombre in cui si cela) per sfuggire alla bruttezza di un mondo ipocrita e violento, bugiardo e stupido, sadico ed indifferente (come emerge dai comportamenti dei diversi personaggi di contorno). Allo stesso modo adotta un silenzio irremovibile (non si sentirà mai la sua voce) come forma di comunicazione, più eloquente e romantica di parole vuote ed inutili (come quelle di chi gli sta attorno), limitandosi a sfogare con una mazza da golf (il ferro 3 del titolo) ed una pallina la propria rabbia esistenziale. In contrasto con la volgarità dei tempi, l'amore fra il giovane protagonista e la malinconica Sun-Hwa assume carattere di delicata leggerezza, come un piccolo miracolo che può schiudersi solo in quella zona di metaforico esilio interiore, in quell'area di confine ove ancora sopravvivono libertà e purezza. Una bella metafora che mette alla prova la fantasia dello spettatore quando nell'ultima parte il racconto, fin allora sostanzialmente verosimile, sfuma nella metafisica fantastica del sogno. Operazione apprezzabile quella di Kim Ki-Duk, premiata a Venezia, anche se tradita da qualche piccola caduta di stile (cosa c'entra la scena con cui il protagonista quasi ammazza fortuitamente una passante con la sua pallina da golf?) e dalla sensazione che il simbolismo sia un po' troppo forzatamente ricco, che si abbia a che fare con "un film-bottiglia, come quelli che si giravano tra gli anni 60 e i 70" dentro cui "si può infilare di tutto" (Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore)".


È una metafora che nel corso di un'ora e mezza si dipana coniugando in una rara sintesi leggerezza e profondità (Tullio Kezich, Il Corriere della Sera)



Regia: Kim Ki-Duk
Anno: 2004


Giudizio: ***1/2

lunedì 15 novembre 2010

The New World


1607: una spedizione di coloni inglese approda sulle coste della Virginia, dove fonderà la città di Jamestown. Fra loro il capitano Smith (Colin Farrell) è inviato presso una tribù di indiani nativi che lo fanno prigioniero. Gli salva la vita una principessa (Q'Orianka Kilcher) ed i due si innamorano. Lei abbandona il suo popolo per seguirlo, ma lui sceglie di partire in cerca di nuove avventure e delle Indie. Ormai risposata e madre, lo incontra per l'ultima volta a Londra, prima del viaggio di ritorno in America durante il quale si ammalerà e morirà prematuramente.
Terrence Malick sceglie una storia non particolarmente originale e spesso banalizzata (la leggenda di Pocahontas) per farne molto di più: un viaggio dell'anima alla scoperta del senso vero dell'amore, dell'apertura alla diversità, dell'ambizione e del bisogno tutto umano di confrontarsi costantemente con i propri limiti per superarli nel disperato tentativo di dare un significato all'esistenza, della fedeltà e dell'oblio. Non solo: affiorano, specialmente nella prima parte, i temi più cari allo sfuggente regista americano, vale a dire la perdita dell'innocenza, il contrasto fra la civiltà corruttrice e la purezza dello stato di natura, la nostalgia per un passato mitico ed autentico, macchiato dalle colpe della Storia (nettissima è la contrapposizione fra il mondo idilliaco ed incontaminato degli indigeni ed il forte dei coloni in cui regnano avidità, gelosia, morte e follia). Così come lo stile cinematografico porta inconfondibilmente la firma dell'autore, con il suo ritmo riflessivo, l'estasiante bellezza delle immagini, i paesaggi naturali, le voci interiori dei personaggi, il timbro alto, il sottofondo filosofico. Forse l'impressione di compiacimento artistico è in parte giustificata, forse è eccessivo il tono evocativo che sembra fare di ogni parola o inquadratura una rivelazione, ma non si può negare la capacità di trasmettere una visione del mondo e del cinema ed una sensibilità estetica decisamente al di fuori del comune. Prendere o lasciare: questo è Terrence Malick.




Regia: Terrence Malick
Anno: 2006


Giudizio: ****

mercoledì 10 novembre 2010

Il Divo


Gli ultimi anni della vita politica dello statista più discusso d'Italia, Giulio Andreotti (nei suoi panni Toni Servillo), nel periodo compreso fra il 1991 ed il 1993, dal suo settimo ed ultimo governo al processo per mafia, passando per Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica. Molti modi di raccontare questa storia erano possibili, la maggior parte dei quali scontati: un grande plauso va al regista Paolo Sorrentino per aver scelto il meno convenzionale, il più coraggioso e sorprendente. Adottando la via della deformazione grottesca e delle atmosfere surreali e dissacranti, spingendo sul pedale della sperimentazione (inquadrature e movimenti di macchina atipici, colonna sonora esuberante), affidandosi ad un Servillo più espressionista che mai, dosando sfera pubblica e privata, l'Andreotti di Sorrentino è ritratto in tutta la sua enigmaticità e complessità, figura controllata ed incline alla razionalità del calcolo, un "regista freddo impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza un momento di pietà umana", eppure tormentato dall'angoscia del rimorso per la morte di Moro, profondamente solo ed amareggiato dall'accusa di vicinanza, in un passato che nega perfino a se stesso, a Cosa Nostra. Un uomo al tempo stesso talmente schiavo e padrone del potere da divenirne simbolo, incarnazione del principio, moralmente controverso, per cui il male è accettabile e necessario e la verità sacrificabile, qualora il fine ultimo sia perseguire il bene collettivo, meglio ancora se in nome di Dio. Mentre ci racconta questo Andreotti, Il Divo racconta anche un'ampia parte della nostra storia recente, quella del predominio DC, dei clientelismi, delle infiltrazioni mafiose, della strategia della tensione, delle morti misteriose e degli intrighi e lo fa con modi e toni mai banali: basti la fantastica apertura con le uccisioni in sequenza di Mino Pecorelli, Roberto Calvi, Michele Sindona, Alberto Dalla Chiesa, Giorgio Ambrosoli, Aldo Moro e Giovanni Falcone accompagnate dalla forsennata Toop Toop dei Cassius. Il titolo rimanda ad uno dei molti soprannomi affibbiati ad Andreotti, durante la sua lunga carriera. Premiato a Cannes ed insignito dell'Oscar per il miglior trucco, grande successo di critica in patria ed all'estero.


"Immagini magnifiche, un sonoro che prende alla gola, una velocità incalzante, un'angoscia e una specie di stupore crescente" (Natalia Aspesi, La Repubblica)



Regia: Paolo Sorrentino
Anno: 2008


Giudizio: ****

martedì 26 ottobre 2010

L'Ora di Religione


Ernesto Picciafuoco (Sergio Castellitto, molto bravo), pittore ateo, viene a sapere che è in corso il processo di canozzazione di sua madre, pia donna uccisa dal fratello di Ernesto, Egidio (Donato Placido), malato mentale con l'ossessione della bestemmia. Coinvolto nella faccenda, suo malgrado, dal resto della famiglia, un tempo rispettata e prestigiosa ma ora decaduta ed in cerca di riscatto, si deve confrontare con parenti cinici ed ipocriti, uomini di Chiesa ed un nobile che lo sfida a duello. Intanto si preoccupa per il figlio, turbato dagli insegnamenti religiosi che riceve a scuola, e finisce per invaghirsi della sua giovane e bella insegnante di religione.
Attraverso la storia di Ernesto, Bellocchio dipinge il ritratto di una società avvelenata dalla immoralità dilagante, dominata dal primato assoluto del tornaconto personale, deprivata di ogni forma di spiritualità autentica, sostituita invece da un materialismo gretto e misero. Dinanzi a ciò, il sorriso irriverente di Ernesto e, ancora di più, l'impeto emotivo con cui, in una sequenza emozionante e drammatica, Egidio urla, bestemmiando ancora una volta Dio e la Madonna, la propria sdegnata protesta, sono una contestazione estrema di istituzioni (famiglia, Chiesa, scuola) ormai incapaci di custodire e trasmettere reali valori. Il percorso di Ernesto è quindi un cammino di maturazione, attraverso la riconsiderazione di scelte passate e presenti e la riaffermazione, rigorosa e coerente, della propria anarchica alterità, del proprio essere contro. I toni volutamente innaturali ed antirealistici, con cui tale iter di crescita è raccontato, ben si adattano ad uno stile fra il surreale ed il grottesco (con accenti paradossali nella vicenda del duello), senza rinunciare all'evidenza della metafora (l'insegnante di religione, misteriosa e sfuggente, è incarnazione, più che personaggio, dell'anelito di libertà e dell'ideale di grazia che Ernesto coraggiosamente insegue). Presentato a Cannes, ha avuto molti riconoscimente fra i critici nostrani.



Regia: Marco Bellocchio
Anno: 2002


Giudizio: ***1/2

domenica 24 ottobre 2010

Il Ritorno


Ivan (Ivan Dabronrdvav) ed Andrei (Vladimir Garin), poco più che bambini, tornando un giorno a casa ritrovano il padre (Konstantin Lavronenko), che vi ha fatto ritorno dopo un'assenza di dodici anni. Partono con lui per un paio di giorni di pesca, ma il viaggio si prolunga: il padre deve recuperare una misteriorsa scatala, nascosta sottoterra su un'isola deserta. Durante la convivenza, il rapporto fra genitore e figli si fa sempre più teso e difficile, ma proprio quando Andrei ed Ivan sembrano non poterne più di quell'uomo dai modi bruschi e severi, questi muore in un incidente. Rimasti soli, cercano di ricondurne le spoglie a casa, ma senza successo.
Senza volersi avventurare nel campo delle interpretazioni, che pure le atmosfere sospese ed ambigue suggeriscono, il sorprendente esordio del russo Zvyagintsev è semplicemente un film sulla complessità del rapporto padre-figlio, sulla difficoltà di educare e trasmettere sapere o valori senza una reale armonia affettiva di fondo; ed anche sul percorso di formazione con cui Andrei ed Ivan, alle prese prima con un principio di autorità con cui sono constretti a confrontarsi e poi con il peso della responsibilità dopo la tragedia, si affacciano alla vita adulta. Ma al di là dell'approfondimento psicologico, il fascino de Il ritorno sta soprattutto nella dimensione universale e mitologica che si è voluto conferire alla storia, con accortezze registiche (inquadrature e movimenti di macchina studiati e suggestivi, la fotografia sporca, i tempi dilatati) e di sceneggiatura (le tante domande che restano fatalmente senza risposta: a cosa è dovuta l'assenza del padre? perchè è tornato? cosa cerca sull'isola?); con riferimenti iconografici espliciti (l'immagine del padre addormentato che riproduce fedelmente il Cristo Morto del Mantegna o quella in cui, incappucciato sulla barca avvolta dalla nebbia, ricorda Caronte); con infausti segni di presagio (la pioggia, la colomba morta, le nubi, ecc.); con un simbolismo cristologico piuttosto evidente (il padre a tavola spezza il pane e distribuisce il vino come fosse un'Ultima Cena, "risorge" di domenica e muore di venerdì, i nomi dei figli corrispondono a quelli latini degli apostoli Andrea e Giovanni e come questi sono spesso mostrati nella veste di pescatori, ecc.). Questo carattere di indefinitezza, di allusività vaga affascina, ma forse è al tempo stesso il limite del film, tanto che si deve ammettere come, pur riconoscendo i meriti e la bravura innegabile del regista, "rimane un forte sospetto di esercizio accademico" (Paolo Mereghetti, Dizionario dei Film). Leone d'Oro a Venezia.



Regia: Andrei Zvyagintsev
Anno: 2003


Giudizio: ***1/2

martedì 19 ottobre 2010

The Prestige


Nella Londra di fine Ottocento, gli illusionisti Robert Angier (Hugh Jackman) ed Alfred Borden (Christian Bale) sono grandi rivali sul palcoscenico e nemici giurati nella vita, da quando la moglie del primo è morta per un incidente durante l'esecuzione di un pericoloso trucco, la responsabilità di cui Angier attribuisce all'altro. Fra inganni, vendette, gelosie e donne contese, l'eterna sfida fra i due non ha mai fine e li vede entrambi ossessionati dall'idea dell'illusione per eccellenza, il "trasporto umano", per realizzare la quale Angier si spinge fino a Colarado Springs, alla ricerca dello scienziato Nikola Tesla (interpratato da David Bowie!).
Una magia, spiega Nolan sin dall'inizio del film, si compone di tre momenti fondamentali: la promessa, la svolta ed infine il prestigio, ossia la conclusione sorprendente e spettacolare. Fedele a tale enunciato, utilizza lo stesso schema narrativo per mettere in scena il romanzo The Prestige di Cristopher Priest: dopo aver condotto lo spettatore su false piste ed averlo fuorviato con diversi colpi di scena, lo sbalordisce con un finale inaspettato per quanto ben costruito e preparato. Al centro di questo intreccio complesso, ma avvincente, si stagliano Angier e Borden, due personaggi a tutto tondo, a tal punto posseduti dall'amore narcistico per lo spettacolo in sè e per il proprio pubblico (evidenti i riferimenti hollywoodiani) da sacrificare ad esso l'intera esistenza, gli affetti, la propria morale. Ma quello della devozione, totalizzante ed assoluta, ad un'arte non è l'unico tema: si riflette anche, seppur senza andare troppo in profondità, sul confine fra finzione e realtà e sui risvolti etici di ogni applicazione tecnologica del sapere scientifico. Sceneggiatura, scenografie e bravura degli attori sono dunque i cardini di un film che, pur senza troppe pretese, nel complesso non dispiace. Oltre ai nomi già citati, quelli di Michael Caine, Rebecca Hall e Scarlett Johansson completano un cast di primissimo piano.



Regia: Cristopher Nolan
Anno: 2006


Giudizio: ***

sabato 16 ottobre 2010

La Stanza del Figlio


Giovanni (Nanni Moretti) è uno psicanalista anconetano dalla vita serena: ha una bella moglie, due figli adolescenti ed il benessere economico. La morte improvvisa del figlio Andrea (Giuseppe Sanfelice) in un incidente durante un'immersione subacquea, però, lo sconvolge, mette in crisi il rapporto con la moglie Paola (Laura Morante) e la figlia Irene (Jasmine Trinca), lo spinge a lasciare il lavoro. Solo l'incontro con la fidanzatina del figlio ed un singolare viaggio assieme sembra rendere in qualche modo ancora possibile uno spiraglio di armonia familiare.
Nanni Moretti affronta un tema introspettivo ed intimista come l'elaborazione del lutto (tanto più tremendo, essendo quello di un figlio), mostrando, con convincente realismo, come l'improvvisa tragedia spezzi equilibri che sembravano cristallizzati e certezze che apparivano acquisite nella tranquillità della quotidiantà borghese. Le reazioni di chi è rimasto sono divergenti ed incompatibili: Giovanni tenta di razionalizzare il dolore, si tormenta con i rimorsi, cerca di esprimere ciò che resta invece fatalmente inesprimibile (la lettera che riscrive continuamente senza successo); Paola si abbandona al contrario ad una disperazione urlata ed inconsolabile, che rifiuta con angoscia ogni tentativo di normalizzazione; Irene, infine, reagisce con rabbia. Chiusi nelle rispettive solitudini, si scoprono incapaci di comunicare, impotenti di fronte all'assurdità del destino ed alla caducità dell'esistenza, non più in grado di far i conti con una vita che continua, nonostante tutto. Moretti è bravo ad assumere un tono non ricattatorio ma sincero, nel far risuonare gli stati d'animo con gli oggetti (le ceramiche sbeccate, i chiodi che chiudono la bara), è impietoso nel non risparmiare allo spettatore neanche i momenti più duri (l'ultimo saluto alla salma), ma è una scelta necessaria per renderne effettiva la compartecipazione emotiva. Interessante anche il tema collaterale del ruolo dello psicanalista, del delicato rapporto con i pazienti (dei quali ci viene offerta un'ampia ed a tratti buffa panoramica), della difficoltà nel mantere in ogni circostanza il dovuto distacco. Unica pecca, forse, la recitazione di Moretti, un po' troppo compassata. Palma d'oro a Cannes.



Regia: Nanni Moretti
Anno: 2001


Giudizio: ****

mercoledì 29 settembre 2010

Il Canto di Paloma


Fausta (Magaly Solier), giovane peruviana, ha mille paure ed una totale diffidenza verso gli uomini, trasmessale dalla madre, vittima degli stupri e delle angherie che erano all'ordine del giorno nel Perù degli anni '80, ai tempi dello scontro fra la dittatura militare ed i gruppi rivoluzionari (maosti, Tupac Amaru). Quando la madre muore, va a lavorare come cameriera in una casa signorile, mentre in famiglia fervono i preparativi per il matrimonio della cugina. La corte gentile e disceta che le fa il giardiniere Noè (Efrain Solis) l'aiuterà ad affrontare finalmente i propri timori. Film imperfetto, in cui non tutto forse torna come dovrebbe negli equilibri narrativi, ma ricco di trovate fantasiose e poetiche, di allegorie originali e spunti profondi, come è proprio di quel realismo magico che ha fatto la fortuna di molta letteratura del mondo latino. Piacevole da ascoltare e toccante il canto (nella melodica e misteriosa lingua quechua degli Inca) con cui Fausta (e prima ancora la madre) esorcizza il terrore, riuscendo solo così ad esternare l'indicibile, a sublimare un orrore altrimenti inesprimibile. Così come è di effetto la metafora del tubero inserito nella vagina, ingenua e disarmante difesa contro la malavagità umana (nella speranza che "solo lo schifo ferma gli schifosi"), il cui germogliare letale rimanda all'idea di un cancro arduo da estirpare, che cresce ed incancrenisce nell'animo di chi ha subito (indirettamente, in questo caso) violenze inumane e ne porta dentro una incancellabile tara (di cui forse è simbolo anche quel cadavere materno da cui Fausta sembra non riuscirsi a liberare): ennesima testimonianza della difficoltà che incontrano le nuove generazioni sudamericane nell'elaborare i drammi della storia recente, nel farsi carico delle atrocità compiute e subite dai padri. Le note di costume che fanno da contorno sono colorite e restituiscono (in contrasto con l'asettico ambiente della villa borghese) l'immagine di un popolo che, pur per ampi strati al di sotto della soglia di povertà, cerca a suo modo di trovare una propria spensieratezza e recuperare l'entusiasmo di vivere. Ed in effetti, la presa di coscienza di Fausta nel finale, che sceglie, seppur ancora timidamente, di aprirsi alla vita è un messaggio di speranza per il futuro di un intero paese. Orso d'oro (meritato) al festival di Berlino, candidato all'Oscar.


Regia: Claudia Llosa
Anno: 2008

Giudizio: ***1/2

domenica 19 settembre 2010

Primavera, Estate, Autunno, Inverno...E Ancora Primavera


La vita di un monaco buddista (interpretato da vari attori, fra cui lo stesso Kim Ki-Duk), scandita da stagioni che corrispondono ad altrettante fasi dell'esistenza: la primavera (l'infanzia), in cui, ancora bambino, viene educato da un maestro asceta (Oh Young-Su) in un eremo sito in mezzo ad un lago, immerso nella natura più incontaminata; l'estate (la giovinezza) in cui conosce l'amore e scopre la sessualità, lasciando l'eremo per seguire la donna amata; l'autunno (l'età di mezzo), in cui uccide la moglie per gelosia e torna all'eremo, per cercarvi rifugio, ma viene comunque trovato dai poliziotti e condotto via; l'inverno (l'età della maturità), in cui, scontata la pena, torna all'eremo per riprendere la vita ascetica di prima; di nuovo la primavera, quando una madre lascia alla sua custodia il figlio, in modo che lo educhi come con lui aveva fatto a suo tempo il maestro.
Favoletta contemplativa, congiunge il facino poetico dell'ambientazione naturale (bellissimo soprattutto il paesaggio invernale) ai temi buddisti della ciclicità dell'esistenza e dell'armonioso connubio fra uomo, natura e spiritualità ed ai temi più universali delle conseguenze morali delle proprie azioni, della dialettica colpa-espiazione-redenzione. Forse il simbolismo è alla lunga troppo insistito e la narrazione troppo irrealistica, così che si ha la sensazione di aver assistito alle allegorie un po' pedagogiche e talvolta grossolane di un apologo, piuttosto che ad una storia realmente sentita e convincente. Il testo che il maestro fa incidere al protagonista sul legno del pavimento è il Sutra del Cuore della Perfezione della Saggezza.



Regia: Kim Ki-Duk
Anno: 2003


Giudizio: ***

Memento


Dalla morte della moglie, Leonard Shelby (Guy Pierce) soffre di amnesia anterograda: non è più in grado di acquisire nuovi ricordi, dimentica ogni cosa in poche ore. Ha sviluppato un complesso sistema di promemoria (fotografie, appunti, tatuaggi, ecc.) con cui cerca di tener traccia degli indizi e dei progressi in quella che è diventata la sua unica ragione di vita: trovare l'assassino della moglie e vendicarla. In questa ricerca sembrano aiutarlo una donna, Natalie (Carrie-Anne Moss), e l'amico Teddy (Joe Pantoliano).
Christopher Nolan ha diretto uno dei più originali, avvincenti ed interessanti thriller degli ultimi anni. La sceneggiatura è praticamente perfetta: l'idea di alternare due linee narrative, una in ordine cronologico (e contraddistinta dalla fotografia in bianco e nero) e l'altra in ordine inverso (ed a colori) convergenti verso il momento culminante della storia è stata intuizione straordinaria, capace di creare un climax che letteralmente cattura l'attenzione spettattore dall'inizio alla fine del film. Al tempo stesso, questo ripensamento ipermoderno degli schemi narrativi classici non è puro artificio, ma ha una giustificazione molto coerente con il contenuto filmico: riproduce in chi guarda lo stesso stato di smarrimento e disorientata confusione che vive il protagonista per via del grave disturbo che l'affligge. Altra intuizione brillante: affidare al racconto della vicenda parallela di Sammy (Stephen Tobolowski) spiegazioni e dettagli che avrebbero altrimenti appesantito il flusso degli eventi. A ciò va aggiunto che al di là dell'appeal commerciale, Memento affronta temi non banali in modo nient'affatto superficiale: il significato dell'identità personale, le relazioni reciproche fra conoscenza, memoria e realtà, l'autoinganno come espediente per rendere l'esistenza sopportabile e trovarvi un senso, i limiti della vendetta come compensazione di una perdita. Anche il finale, aperto ed ambiguo, contribuisce a conferire spessore. Indimenticabile la sequenza, a suo modo poetica, in cui il protagonista chiede ad una prostituta di aspettare che si addormenti per poi svegliarlo chiudendo rumorosamente la porta del bagno: disperato tentativo di rivivere, per pochi attimi, l'illusione di avere ancora la moglie accante a sè.
Ad ormai dieci anni dalla sua uscita, è oggi chiara l'influenza che questo fim ha avuto su molta cinematografia successiva e non si può che rendergliene merito.



Regia: Christopher Nolan
Anno: 2000


Giudizio: ****