A poco più di un anno dalla sua nascita, Cineamando chiude i battenti. Era ed è rimasto un esperimento, in buona parte riuscito. Grazie a tutti quelli che ci hanno letto, chi più assiduamente, chi meno.
Arrivederci!
domenica 19 giugno 2011
sabato 9 aprile 2011
Poetry
Mija (Yoon Jeong-hee), ultrasessantenne che lamenta le prime avvisaglie dell'alzheimer e coltiva il sogno di imparare a scrivere poesie, viene a scoprire che il nipote adolescente ha preso parte a violenze di gruppo nei confronti di una coetana che si è tolta la vita. Si ritroverà ad affrontare scelte difficili.
Film pessimista questo di Lee Chang-dong eppure non disperato: in un mondo cinico ed arido, ipocrita e volgare, è forse ancora possibile trovare una via alla bellezza ed alla verità. La poesia, ricerca del sublime ed al tempo stesso piacere delle cose piccole e semplici, arte del vedere e del sentire quello che ai più sfugge, si presta perfettamente ad incarnare la speranza che le brutture estetiche e morali non abbiamo preso definitivamente il sopravvento. La società che ci racconta Lee Chang-dong è marcia: una gioventù perduta, inebetita ed anestetizzata che non sa discernere il bene dal male, padri irresponsabili e ciechi, preoccupati solo di coprire (nè capire, nè tantomeno punire) le ignobili colpe dei figli. Quello di Mija è allora un "percorso lento, sofferto e soggetto agli sbalzi di una memoria ingannatrice; una via tortuosa e collaterale alla (sua) verità (Emanuele Sacchi, mymovies.it) ", che, anche attraverso l'esperienza dell'incontro misterioso e teneramente ingenuo con la sensibilità poetica, si farà presa di coscienza etica, apertura del cuore ad una pietà commossa verso una vittima innocente, la cui memoria una scelta diversa da quella di Mija avrebbe tradito. Premiato a Cannes per la sceneggiatura che in effetti sviluppa una storia convincente con precisione e senza eccessi. Yoon Jeong-hee, una delle più note attrici sudcoreane, è tornata a recitare dopo oltre quindici anni di inattività, regalando una performance di tutto rispetto.
Regia: Lee Chang-dong
Anno: 2010
Giudizio: ***1/2
sabato 2 aprile 2011
Uomini di Dio
Ispirato alla storia vera di un gruppo di monaci trappisti francesi di un monastero algerino, rapiti e barbaramente uccisi da jihadisti islamici nel 1996, in circostanze ancora non nel tutto chiarite.
Il focus del film non è però sul tragico epilogo, sfumato volutamente fuori campo da una sceneggiatura più attenta a quanto l'ha preceduto, al progressivo montare della guerra civile che ha sconvolto il paese dopo il golpe militare del '92, all'insinuarsi del fondamentalismo musulmano e soprattutto al percoso umano che ha condotto i nove frati a scegliere di restare nonostante il pericolo, accettando con evangelica rassegnazione un destino infausto sempre più ineluttabile. Non è, tuttavia, va riconosciuto, un'opera agiografica: dei monaci (di cui si impara a conoscere i momenti di preghiera, studio, lavoro e meditazione che ne scandiscono i ritmi pacati di vita, così come lo spirito di fratellanza ed il saldo legame di amorevole sussidiarietà verso la comunità locale) sono mostrati anche i sentimenti umanissimi del dubbio e della paura, le debolezze che trovano solo nel mistero della fede il proprio antidoto, oltre che la forza di restare fedeli ad una missione di amore verso Dio ed il prossimo. Il film di Beauvois, dunque, "tocca i momenti più convincenti non nei discorsi un po' troppo programmatici tra cristiani e mussulmani, ma nelle scene di vita quotidiana, nel senso di amore per la natura che i trappisti coltivano, nel rispetto tra uomini e cose che si legge nei gesti di tutti i giorni (Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera)" e può contare su una regia semplice e precisa che rende appieno il senso di comunanza comunitaria che si è voluto trasmettere (oltre che con una recitazione corale, priva di prime donne) con inquadrature ampie che abbracciano sovente il gruppo di monaci e non disedegnano riferimenti figurativi alti e raffianti (L'Ultima Cena).
Grande successo in patria, dove, fra l'altro, ha ricevuto il prestigioso Grand Prix al Festival di Cannes.
La materia del racconto è piuttosto la vita quotidiana dei frati, il loro legame con la popolazione in mezzo alla quale vivono: ed è qui che si esercita il sublime (Lietta Tornabuoni, L'Espresso)
Regia: Xavier Beauvois
Anno: 2010
Giudizio: ***1/2
domenica 27 marzo 2011
I Ragazzi Stanno Bene
Nic (Annette Bening) e Jules (Julianne Moore), coppia lesbica regolarmente sposata, hanno due figli concepiti con il seme del donatore anonimo Paul (Mark Ruffalo). Quando i ragazzi decidono di conoscerlo, questi, figo trendy e un po' playboy, sembra destinato a sconvolgere gli equilibri familiari, finendo a letto con Jules e mettendone in crisi il matrimonio.
Commedia indipendente americana, ambientata nella California medio-borghese chic ed open-minded, I ragazzi stanno bene affronta con naturalezza le nuove dinamiche amorose, affettive e relazionali che nascono nella società della liberalizzazione dei costumi sessuali: se lo humor della Cholodenko ne sottolinea ironicamente i paradossi (coppia di lesbiche con figli da padre etero e che nei momenti di intimità guarda porno maschili per gay!), il merito ed il valore del film sta nella volontà di normalizzazione dell'essere omosessuale, nell'anelito liberatorio che vorrebbe spezzare le catene omofobe che ancora cingono il modello classico di famiglia, mostrando come gay non significhi necessariemente trasgressione e sregolatezza, ma rappresenti nella maggior parte dei casi la condizione di vita quotidiana di persone assolutamente ordinarie. Il messaggio è affidato al racconto di una storia estremamente convenzionale (matrimonio messo in crisi dal logorio degli anni e dalla differente realizzazione professionale dei coniugi con tutte le annesse frustrazioni e ricriminazioni, sbandamento condito dall'immancabile scappatella che si risolve in una più matura consapevolezza ed accettazione dell'altro con superamento finale delle momentanee difficoltà), messa in scena correttamente ma senza entusiasmare in modo particolare. Resta da capire se la comunità indie abbia davvero gradito un'esaltazione, per quanto in chiave moderna, di valori e modelli di vita decisamente tradizionali: il tentativo alternativo di coabitazione sentimentale allargata appare infatti fin dall'inizio impossibile e condannato al fallimento.
E' il modo del tutto convenzionale di affrontare una storia su un nucleo familiare non convenzionale l'idea forte del film (Edoardo Becattini, mymovies.com)
Regia: Lisa Cholodenko
Anno: 2010
Giudzio: **1/2
domenica 13 marzo 2011
The Fighter
La storia vera del pugile professionista Mickey Ward (Mark Wahlberg) che nel 2000 divenne campione del mondo nella categoria pesi welter. E del fratellastro Dicky (Chrisitian Bale), un tempo giovane promessa della boxe, ma poi smarritosi nella schiavitù del crack e dei ricordi. Ma anche la storia di una famiglia gretta ed invadente e di una comunità industriale del Massachuttes, in cui la maggior parte delle diatribe si risolvono a pugni o a schiaffi.
David O. Russell ha costruito il suo film facendo del ring metafora esistenziale: Dicky è uno a cui piaceva restare sempre al centro del tappeto e dell'attenzione, mobile sulle gambe come volubile nell'animo le cui ferite sono scavate sul volto emaciato e la cui follia è impressa negli occhi stralunati di un Bale meritatamente premiato come attore non protagonista con Oscar e Golden Globe. Mickey è invece uno abituato ad incassare colpo su colpo, sempre chiuso alle corde da una vita da perdente su cui non ha controllo e quasi nemmeno diritto di parola, ma che è certo di avere dentro sè l'energia nascosta del campione per reagire, quando nessuno ormai ci crede più, e tempestare di pugni l'avversario ed il destino fino al gong finale, quello della rivalsa e del trionfo. E se questo parallelismo funziona, così come il mix di temi importanti (il tunnel della tossicodipendenza, il rapporto di amore e odio con la famiglia, l'autodeterminazione come momento fondamentale di crescita, il sogno del successo) è ben accompagnato da una regia che ha senso del ritmo e trovate interessanti (il film nel film), "un finale che è pacificatorio e, come detto, troppo ‘happy'" (Giancarlo Zappoli, mymovies.it) toglie qualcosa ad un film che resta comunque complessivamente apprezzabile. Generosi i premi a Melissa Leo nel ruolo di madre-manager, brava ma nulla di più.
Regia: David O. Russell
Anno: 2010
Giudizio: ***
domenica 6 marzo 2011
Un Gelido Inverno
Su un altopiano dell'America centrale, in una comunità chiusa ed arretrata, la diciassettenne Ree (Jennifer Lawrence) si prende cura dei fratellini da quando la madre è in stato di patologica apatia ed il padre, appena uscito di galera, è sparito dalla circolazione. Quando viene a sapere che questi ha impegnato la casa a garanzia della cauzione, Ree decide di mettersi sulle sue tracce e comincia una ricerca fitta di misteri che la porterà a scoprire una terribile verità.
Il secondo lungometraggio della semiesordiente regista Debra Granik, talento emergente del panorama cinematografico indipendente, ha al tempo stesso gli stilemi del genere thriller e la forza della denuncia sociale: ad essere mostrata è un'America rurale che vive ai margini dell'indigenza, che è soffocata da strutture rigidamente patriarcali e maschiliste, che è dominata dalla violenza e dall'autodifesa (anche'essa violenta, come quando Ree insegna ai fratellini l'uso del fucile) al di fuori da ogni cornice civile, che è sopraffatta da un'illegalità pervasiva e da una fitta ragnatela di complicità ed omertà, che è schiava della devastazione fisica e psicologica prodotta dalle metanfetamine, la droga dei poveri. La bravura della regia della Granik sta nell'aver reso tangibili le atmosfere imputridite, come il fondo della palude in cui Ree rinverrà il cadavere del padre, di un angolo di Stati Uniti, lato oscuro e scabro della società americana. Se quindi può dirsi assai ben riuscita l'operazione di descrivere "un contesto miserabile e infausto utilizzando un linguaggio livido e cupo" (Edoardo Becattini, mymovies.it), meno efficace appare un racconto che paga qualcosa sul piano della naturalezza e non si libera da una freddezza di fondo, stilisticamente coerente ma che alla lunga rischia di risultare indigesta. Premiato al Sundance ed al Torino Film Festival, sono rimaste invece senza seguito le quattro canditature agli Oscar.
Regia: Debra Granik
Anno: 2010
Giudizio: ***
sabato 5 marzo 2011
Il Cigno Nero
La ballerina classica Nina (Natalie Portman) ha ottenuto il ruolo principale ne Il Lago dei Cigni, ma se è perfetta nell'interpretare la fragilità tormentata del cigno bianco, non riesce ad incarnare la passionalità del cigno nero. Repressa dalla madre asfissiante (Barbara Hershay), pungulata da un coreografo esigente (Vincent Cassel) ed in competizione con la conturbante Lilly (Mila Kunis), Nina scoprirà il proprio lato oscuro.
Aronofsky punta sul tema del doppio (con tutto il conseguente gioco di specchi, riflessi, allucinazioni), chiamando in causa la dualità fra la sublimazione controllata e antivitalistica che aspira all'ordine della perfezione ed il tumulto ebbro e viscerale delle passioni umane. La protagonista Nina, la cui carattarizzazione psicologica ruota attorno alla marbosità del rapporto con una madre possessiva e protettiva oltre ogni limite da cui discendono insicurezze e tormenti interiori (somatizzati in disturbi psicofisici sempre più evidenti ed autolesionistici), compie un viaggio dentro sè stessa alla ricerca della parte più istintiva e sensuale di sè, più erotica e trasgressiva che troverà solo con l'omicidio/suicidio finale, potentemente metaforico. Le scelte visuali del regista, funzionali alla rappresentazione di una metamorfosi che pur rapisce e inquieta, sono all'insegna di una eccentricità forse eccessiva che tradisce una "sensibilità stravagante e un tantino kitsch" (Gianluca Arnone, cinematografo.it). Come già in The Wrestler, si ritrova il tema del destino sofferto del performer, della dedizione totale al pubblico, del connubio fra morte ed arte. Premiatissima la Portman, vincitrice, fra l'altro, di un Golden Globe e dell'Oscar.
Regia: Darren Aronofsky
Anno: 2010
Giudizio: ***
sabato 19 febbraio 2011
Il Grinta
Seconda metà dell'800, la quattordicenne Mattie (Hailee Steinfeld) assolda, per scovare l'uomo che ha ucciso suo padre, lo sceriffo Rooster Cogburn detto "Il Grinta" (Jeff Bridges), non più giovane e mezzo alcolizzato, assieme al quale si avventura nelle terre selvagge dell'Arkansas, alla caccia della banda di cui fa parte il fuggitivo. A loro si unirà un ranger texano (Matt Damon).
Adattando il romanzo True Grit di Charles Portis con un remake del film omonimo del 1969 (che valse un Oscar a John Wayne), i fratelli Coen si misurano con il più classico dei generi cinematografici, girando un western crepuscolare che riprende il repertorio tematico caratteristico delle loro produzioni (imprevedibilità della sorte, arbitrarietà ed irrazionalità del destino, crisi dei valori morali e qui anche nostalgia del passato) e contaminato con le cifre inconfondibili del loro stile sempre in perfetto equilibro fra piacere del racconto ed un umorismo nero e paradossale. "Affogando nel nichilismo la retorica della mitologia americana"(Gianluca Arnone, cinematografo.it), i Coen narrano in fondo una storia di formazione in cui la giovanissima eroina, intransigente nella convinzione che ogni colpa debba essere punita e che esista una chiara linea di demarcazione fra Bene e Male, apprende dallo sceriffo dal grilletto facile e con qualche anno e chilo di troppo che la vita, con i compromessi e le scelte che impone, è faccenda ben più complicata. Assolutamente delizioso il nonsense che percorre il film e che affiora in certe trovate (la gara di tiro alle ciambelle) o battute ed alcuni personaggi (il medico con la pelle d'orso, il bandito che fa i versi degli animali), autentico marchio di fabbrica dei fratelli registi. Candidato a dieci premi Oscar e buon successo commerciale.
Regia: Joel ed Ethan Coen
Anno: 2010
Giudizio: ***1/2
Another Year
La candidatura all'Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale di quest'ultimo lavoro dell'inglese Mike Leigh è stata notizia inattesa e gradita: capita di rado per un film in cui, di per sé, accade poco, che si limita a raccontare la quotidianità di una coppia sessantenne e benestante (l'occhio è puntato sulla piccola borghesia di provincia) e del microcosmo composto dai loro amici e parenti. Ma in tale ripetitività di gesti e situazioni (pranzi, cene, visite più o meno annunciate) Leigh vi cala una coinvolgente riflessione sul senso della vita e sul trascorrere monotono del tempo (già nel titolo), scandito appena dalle piccole novità, liete (il fidanzamento del figlio) o tristi (la morte della cognata) che segnano le vite ordinarie delle persone comuni. E volti comuni e familiari sono stati scelti per personaggi che non hanno alcunché di eccezionale, fra cui si distingue Mary, amica di famiglia invadente e scontenta, interpretata da una grandiosa Lesley Manville. Sono personaggi che si confrontano con la difficoltà del vivere e la sua incomunicabilità, con la solitudine e la nostalgia dei ricordi, con conflitti e tensioni latenti, con il dolore della perdita e gli spettri di un fallimento personale annegato in troppi bicchieri e troppe sigarette. Così, mentre le stagioni si alternano di pari passo cambiano gli stati d'animo e le atmosfere, più giocose e ed ironicamente allegre nella prima metà, via via più dolenti e malinconiche verso il cupo finale, anticipato de un prologo pessimista che funge da iniziale dichiarazione d'intenti. L'ultima inquadratura lascia con un nodo alla gola col suo messaggio senza speranza: l'infelicità, per quanto ci si affanni, è destinata a restare un male incurabile.
Regia: Mike Leigh
Anno: 2010
Giudizio: ***1/2
martedì 8 febbraio 2011
Il Discorso del Re
La storia di re Giorgio VI d'Inghilterra (Colin Firth) e degli incessanti sforzi con cui combattè per tutta la vita la balbuzie da cui era affetto, grazie all'aiuto di un logopedista (Geoffrey Rush), non vero medico ma acuto conoscitore dell'animo umano. Tom Hooper ha diretto un buon film sul tema del confronto dell'uomo con le proprie debolezze e della nobilitante lotta per il superamento dei propri limiti, con il messaggio di fondo che perseveranza, forza d'animo e coraggio di affrontare le proprie paure sono le qualità che contraddistinguono i vincenti nella vita. Ma c'è anche una riflessione sull'importanza della responsabilità, in un periodo in cui (siamo agli albori della Seconda Guerra Mondiale) la Storia chiamava gli uomini ad affrontare sofferenze e difficoltà. Interessante la raffigurazione di un mondo di cui, con la diffusione dei primi mezzi di comunicazione di massa, iniziava a cambiare per sempre la percezione ed il ritratto del lato umano del potere, attraverso le tinte delicate del rapporto fra re Giorgio ed i propri cari (la moglie, le figlie). A convincere meno, la psicologia un po' troppo incline al cliché (i turbamenti dell'infanzia, il peso dell'autorità paterna, l'ambiguo rapporto col fratello). Da godere la sequenza in cui re Giorgio fa le prove del discorso alla Nazione che seguì la dichiarazione di guerra alla Germania nazista, intervallando frasi gravi e solenni ad improperi e motivetti canterini per vincere le esitazioni della voce. Vero trionfatore agli Oscar 2011.
Regia: Tom Hooper
Anno: 2011
Giudizio: ***
sabato 15 gennaio 2011
Hereafter
Marie (Cecile de France) è una giornalista francese di successo, sopravvissuta per un soffio ad uno tsunami e cambiata per sempre dall'esperienza; George (Matt Damon) è un sensitivo americano che parla con i morti, ma sogna una vita normale; Marcus (Frankie McLaren) è un ragazzino inglese che non accetta la perdita del fratello gemello che è stato sottratto dai servizi sociali alla madre alcolizzata e tossicodipendente. Tre storie che hanno a che fare con la morte e con il legame misterioso con l'aldilà e che si ricongiungono a Londra, in un finale all'insegna della speranza.
Clint Eastwood ha realizzato questo film su una sceneggiatura di Peter Morgan costruita attorno ad un motivo conduttore delicato e difficile, che si sarebbe potuta prestare all'ovvio, allo stravangante o, peggio, al patetico: con una regia sobria e come sempre senza pecche il regista americano ha scampato il triplice rischio, dirigendo un cast che recita sotto le righe, cavandosela bene nel dare un'anima a personaggi autenticamente umani. Di fronte alla morte, di cui ci si sofferma sia sul carattere più privato ed intimo (l'incidente del piccolo Jason), sia sulla dimensione collettiva, condivisa (il disastro naturale dello tsunami, gli attentati di Londra) ed alle sue implicazioni metafisiche, Eastwood ha una posizione interlocutoria, che prende le distanze dalle cialtronerie new age e dalle ricette religiose preconfezionate, ma anche dal nichilismo sbrigativo e superficiale, lasciando aperta la via del dubbio. Ma è nel confronto con la fine e nel nuovo e più ricco significato che ne assume la vita che stanno i contenuti più interessanti di un film che affronta anche i temi della solitudine, del bisogno di essere amati, della invalicabile distanza che pongono tra le persone alcune esperienze personali ed irripetibili.
Impressionante la sequenza iniziale in cui la devastazione del maremoto è resa con credibile realismo grazie agli effetti speciali digitali.
Regia: Clint Eastwood
Anno: 2010
Giudizio: ***1/2
mercoledì 12 gennaio 2011
Soul Kitchen
Il giovane greco Zinos (Adam Bousdoukos) gestisce ad Amburgo una taverna che è poco più di una bettola, ma l'arrivo di un cuoco raffinato e un po' strambo lo trasformerà in un locale di gran moda. Intanto Zinos è alle prese con mille guai: è in bolletta, la bella fidanzata lo lascia, il mal di schiena lo tortura, ha il fisco e l'ufficio d'igiene alle calcagna, il fratello Illias (Moritz Bleibtreu), appena uscito di prigione, si gioca a poker il ristorante. Ma tutto è bene quel che finisce bene.
Akin gira una commedia senza pretese, ma tutto sommato divertente, sui temi dell'importanza dei sogni e della difficoltà di realizzarli, della caparbia intraprendenza giovanile e dell'edonismo spensierato (è un film in cui si ascolta buona musica, si beve tanto, si mangia bene, non manca il sesso), con qualche spunto di polemica sociale (contrapponendo una borghesia avida, volgare e senza scrupoli all'estro romantico e creativo della gioventù squattrinata). Il punto debole è in una sceneggiatura che scoppietta un po'troppo (con qualche caduta di stile, come nella sequenza dei bagordi che seguono un dessert particolarmente afrodisiaco) prima di prendere la scorciatoia più facile per un finale scontato, che mette tutto a posto. Sicuramente migliore il lavoro sui personaggi, alcuni ben riusciti: il vecchietto affittuario di Zinos è, con la sua scurrile irriverenza, assolutamente esilarante.
Premiato a Venezia col Leone d'Argento. Il titolo è il nome del locale.
Regia: Fatih Akin
Anno: 2009
Giudizio: **1/2
martedì 11 gennaio 2011
Se mi lasci ti cancello
Clementine (Kate Winslet), dopo aver lasciato il fidanzato Joel (Jim Carrey), si è rivolta ad una clinica specializzata nel cancellare ricordi per eliminarne ogni traccia dalla propria mente. Quando Joel lo scopre decide di fare altrettanto, ma mentre il processo è ancora in corso si pente e cerca di interromperlo.
Commedia romantica firmata dal quasi esordiente Michel Gondry (su sceneggiatura di Charlie Kaufman, condivisibilmente premiata con l'Oscar) ed incentrata sull'analisi dei meccanismi della psiche umana, tanto che buona parte del film si svolge letteralmente nella mente di Joel. Dell'originalità della trovata va dato atto: consente una libertà narrativa e visionaria che raggiunge buoni risultati e dona momenti di grazia surreale nell'affrontare i temi psicologici del ruolo rivestito dalla memoria nel definire l'identità personale, del peso dell'incoscio nell'orientamento delle scelte, della ripetitività degli sbagli. Finale romanticamente ottimista, ma non sdolcinato.
Idiota e fuorviante il titolo italiano, lontano dall'originale Eternal sunshine of the spotless mind (da un verso del poeta inglese Alexander Pope), ben più raffinato.
Regia: Michel Gondry
Anno: 2004
Giudizio: ***
sabato 8 gennaio 2011
I Gatti Persiani
Negar (Negar Sheghaghi) e Ashkan (Ashkan Koohzad) sono una giovane coppia di musicisti rock iraniani ed hanno un sogno: lasciare il proprio paese per esibirsi in Occidente. Con l'aiuto dello scaltro Nader (Hamed Behdad) cercano di procurarsi visti e passaporti falsi e di trovare gli altri membri necessari per comporre la band. Comincia così un curioso viaggio negli ambienti della sottocultura musicale underground di Teheran, alla scoperta dei generi più vari (dall'indie al metal, dal pop al rap e così via) e degli spazi clandestini in cui i gruppi alternativi possono suonare sfuggendo alle autorità: negli scantinati, sopra i tetti dei palazzi, in campagna o in edifici in costruzione, perfino in una stalla fra le vacche. Oscillando fra il documentario ed il videoclip, Ghobadi racconta il doppio volto dell'Iran, la nuova generazione di giovani ansiosi di libertà di pensiero e di espressione che cerca di sfuggire con creatività ed inventiva alla morsa di una tirannia teocratica ossessionata dal controllo, costretti a vivere l'incubo continuo delle autorizzazioni che non arrivano mai, di una censura ottusa, dei vicini che fanno la spia e delle perquisizioni della polizia. Nel tristissimo finale sta la forza della denuncia: oggi in Iran non ci si può permettere di avere un sogno. Fantastica la sequena dell'interrogatorio di Nader che, trovato in possesso di centinaia di dvd proibiti ed una bottiglia di liquore, usa tutta la propria stoffa da commediante per discolparsi.
Girato senza permessi ed in soli 17 giorni, ha costretto Ghobadi all'autoesilio per evitare il carcere.
Regia: Bahman Ghobadi
Anno: 2009
Giudizio: ***
mercoledì 5 gennaio 2011
La Prima Cosa Bella
La livornese Anna (Stefania Sandrelli al presente, Micaela Ramazzotti da giovane) è in punto di morte e la figlia Valeria (Claudia Pandolfi) chiama al suo capezzale il fratello Bruno (Valerio Mastrandrea), professore insoddisfatto ed inquieto, nella speranza di ricostruire il rapporto fra questi e l'anziana madre, compromesso molto tempo prima. Mentre in lunghi flashback Bruno rivive i ricordi dell'infanzia, l'esplosiva ed incontenibile vitalità di Anna, la gelosia paterna, la separazione dei genitori, le tribolazioni, il rapporto di amore e odio con la madre (donna bella e dai costumi disinvolti) fino alla rottura dovuta ad incomprensioni di quand'era adolescente, i nodi del passato vengono al pettine (c'è un fratellastro, mai conosciuto prima) e tutti i conflitti irrisolti si sanano in un epilogo melenso.
Se l'intenzione non era malvagia nel voler mettere in scena il bilancio esistenziale e degli affetti di un uomo infelice perchè ancora incapace di dimenticare il passato e trovare una propria autentica identità, ripercorrendo gli eventi all'origine del suo male interiore (intenzione che riesce soprattutto nel tratteggiare il rapporto con la sorella Valeria, forse il più sincero del film), i cliché abbondano, la sceneggiatura strizza l'occhio al pubblico amante dei sentimentalismi, il finale delude (ogni dissidio è conciliato, ogni tensione rilasciata, ogni scelta è quella giusta), il messaggio di fondo (la vita va vissuta sull'onda delle emozioni più genuine, senza compromessi) è piuttosto scontato. Salviamo qualche battuta divertente ed una prima parte tutto sommato discreta, ma non si va comunque oltre il classico esempio di commediola italiana, provinciale e furbetta, che trova la soluzione a tutti i problemi nell'atteggiamento scanzonato (e un po' nostalgico) e nel calore protettivo della famiglia.
Il titolo rimanda ad una canzone della colonna sonora. Candidato italiano all'Oscar 2011 come miglior film straniero: chi l'ha selezionato preferendolo al capolavoro L'uomo che verrà si presta ad essere tacciato di autolesionismo.
Regia: Paolo Virzì
Anno: 2010
Giudizio: **
martedì 4 gennaio 2011
La Sorgente del Fiume
Grecia, 1919: la rivoluzione bolscevica ha costretto la comunità greca di Odessa a far ritorno in patria e stabilirsi presso la foce di un grande fiume. Fra i profughi vi sono i giovani Alexis (Nikos Poursanidis) ed Eleni (Alexandra Aidini), che si amano, ma sono costretti a fuggire perchè Eleni avrebbe dovuto sposare il padre di lui, Spyros (Vassilis Kolovos). Stabilitisi a Salonicco, Alexis si guadagna da vivere facendo il musicista, ma dopo la salita al potere del dittatore Metaxas nel '36 decide di avventurarsi in America, in cerca di fortuna. Allo scoppio delle Seconda Guerra Mondiale si arruola nell'esercito americano, mentre i due figli della coppia si schierano su fronti opposti nella guerra civile che seguì la liberazione. Finale dolente.
Quella di Theo Angelopoulos, il più celebrato regista greco di sempre, non è firma che passa inosservata, così come il suo stile, elegante e ricercato, che colpisce ed affascina per l'incedere lento e grave, per l'uso magistrale del piano sequenza e dei campi lunghi nel definire lo spazio scenico e scandire i ritmi del movimento, per la perfezione delle scenografie, per la potenza visiva di composizioni quasi pittoriche la cui armonia è curata in ogni dettaglio (luce, colore, volume), per la ricchezza simbolica (qui l'acqua, elemento onnipresente in quasi ogni scena, al tempo stesso richiama il pianto e quindi il lutto, ma anche l'incessante fluire del tempo e la consustanzialità di tutte le cose). Monumentale è la definzione più naturale per la suo opera (già nella durata di quasi tre ore), primo capitolo di una trilogia sulla storia greca moderna, che ambisce a raccontare i tremendi avvenimenti del '900 attraverso i drammi privati di una saga familiare, apertamente ispirata alla tradizione della tragedia classica (un padre ed un figlio che si contendono la donna amata come nell'Edipo Re, due fratelli che combattono l'uno contro l'altro come nell'Antigone) ed ai suo grandi temi: l'amore, la morte, l'esilio, la guerra, il fato. E tale influenza si fa evidente nel carattere apertamente teatrale di un film il cui set-palcoscenico (evidente dichiarazione di poetica è dunque la sequenza nel teatro in cui alloggiano gli sfollati) ospita performance di attori dalla recitazione più enfatizzata ed espressiva che verosimile ed i cui dialoghi puntano più all'intensità che alla naturalezza. Comprensibilmente tanta affettazione manieristica potrebbe non convincere, se la suggestiva bellezza delle immagini e la memorabilità di molte sequenze (dall'arrivo dei profughi con cui si apre il film al corteo funebre, dall'albero carico di pecore straziate all'inondazione del villaggio ed alle donne in lutto che cercano le spoglie dei propri cari) non fosse un più che valido compenso. L'urlo struggente di Eleni che chiude il film è un terribile atto di accusa contro la follia dell'uomo e della Storia e la crudeltà del destino. La colonna sonora composta dalle musiche di Eleni Karaindrou dà un contributo importante all'atmosfera malinconica che percorre tutto il film, carica del presagio di perdite e sventure.
Regia: Theo Angelopoulos
Anno: 2004
Giudizio: ****
sabato 1 gennaio 2011
Niente Da Nascondere
La serena tranquillità familiare del conduttore televisivo Georges (Daniel Auteuil) e di sua moglie Anne (Juliette Binoche) è turbata quando iniziano a ricevere strani disegni e videocassette anonime con riprese effettuate da qualcuno che li spia. Allorché Georges intuisce chi può esserne l'autore, un oscuro episodio del suo passato torna alla luce.
Una regia accurata (premiata a Cannes) che regala inquadrature belle e funzionali (come nella sequenza in ascensore, nella parte finale del film) permette ad Haneke di costruire una sorta di thriller non convenzionale in cui si respirano le atmosfere ambigue e paranoiche tipiche di questo autore e che mantiene intatta la tensione fino all'inquietante ed enigmatica rivelazione finale, tocco da maestro di un regista che predililige le domande alle risposte e confondere le acque piuttosto che soddisfare le aspettative dello spettatore. La riflessione di Haneke è provocatoria come per lui usuale e tocca molti temi, dal lato oscuro della psiche umana all'inconoscibilità della verità, dal ruolo ed i limiti dell'osservazione (e, quindi, del cinema) ai meccanismi di negazione e rimozione del senso di colpa, a cui conferisce una dimensione personale più immediata (negazione della responsabilità individuale), alludendo però anche ad una dimensione sociale (negazione dell'iniquità della condizione di privilegio del ceto benestante), una nazionale (rimozione delle conseguenze nefaste del colonialismo francese) ed una universale (rimozione delle colpe del mondo occidentale nei confronti degli ultimi della Terra): è una riflessione che vuole colpire al cuore il volto pulito del mondo borghese e metterne a nudo falsità ed ipocrisie (nessuno è senza macchia), costringendo lo spettatore all'immedesimazione (in questa direzione va, ad esempio, la scelta di annullare la colonna sonora) ed a fare i conti con la propria coscienza. Fra i momenti più intensi, la scena del suicidio di Majid (Maurice Benichou) ed il confronto/scontro fra suo figlio e Georges. Come con la maggior parte dei film di Haneke, non si resta indifferenti.
Haneke mostra la fragilità del mondo contemporaneo [...] con la consueta, diabolica abilità nel tratteggiare al paura, la violenza e il senso di colpa che sconvolgono le certezze borghesi. (Dizionario dei Film Mereghetti)
Regia: Michael Haneke
Anno: 2005
Giudizio: ****
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