martedì 26 ottobre 2010

L'Ora di Religione


Ernesto Picciafuoco (Sergio Castellitto, molto bravo), pittore ateo, viene a sapere che è in corso il processo di canozzazione di sua madre, pia donna uccisa dal fratello di Ernesto, Egidio (Donato Placido), malato mentale con l'ossessione della bestemmia. Coinvolto nella faccenda, suo malgrado, dal resto della famiglia, un tempo rispettata e prestigiosa ma ora decaduta ed in cerca di riscatto, si deve confrontare con parenti cinici ed ipocriti, uomini di Chiesa ed un nobile che lo sfida a duello. Intanto si preoccupa per il figlio, turbato dagli insegnamenti religiosi che riceve a scuola, e finisce per invaghirsi della sua giovane e bella insegnante di religione.
Attraverso la storia di Ernesto, Bellocchio dipinge il ritratto di una società avvelenata dalla immoralità dilagante, dominata dal primato assoluto del tornaconto personale, deprivata di ogni forma di spiritualità autentica, sostituita invece da un materialismo gretto e misero. Dinanzi a ciò, il sorriso irriverente di Ernesto e, ancora di più, l'impeto emotivo con cui, in una sequenza emozionante e drammatica, Egidio urla, bestemmiando ancora una volta Dio e la Madonna, la propria sdegnata protesta, sono una contestazione estrema di istituzioni (famiglia, Chiesa, scuola) ormai incapaci di custodire e trasmettere reali valori. Il percorso di Ernesto è quindi un cammino di maturazione, attraverso la riconsiderazione di scelte passate e presenti e la riaffermazione, rigorosa e coerente, della propria anarchica alterità, del proprio essere contro. I toni volutamente innaturali ed antirealistici, con cui tale iter di crescita è raccontato, ben si adattano ad uno stile fra il surreale ed il grottesco (con accenti paradossali nella vicenda del duello), senza rinunciare all'evidenza della metafora (l'insegnante di religione, misteriosa e sfuggente, è incarnazione, più che personaggio, dell'anelito di libertà e dell'ideale di grazia che Ernesto coraggiosamente insegue). Presentato a Cannes, ha avuto molti riconoscimente fra i critici nostrani.



Regia: Marco Bellocchio
Anno: 2002


Giudizio: ***1/2

domenica 24 ottobre 2010

Il Ritorno


Ivan (Ivan Dabronrdvav) ed Andrei (Vladimir Garin), poco più che bambini, tornando un giorno a casa ritrovano il padre (Konstantin Lavronenko), che vi ha fatto ritorno dopo un'assenza di dodici anni. Partono con lui per un paio di giorni di pesca, ma il viaggio si prolunga: il padre deve recuperare una misteriorsa scatala, nascosta sottoterra su un'isola deserta. Durante la convivenza, il rapporto fra genitore e figli si fa sempre più teso e difficile, ma proprio quando Andrei ed Ivan sembrano non poterne più di quell'uomo dai modi bruschi e severi, questi muore in un incidente. Rimasti soli, cercano di ricondurne le spoglie a casa, ma senza successo.
Senza volersi avventurare nel campo delle interpretazioni, che pure le atmosfere sospese ed ambigue suggeriscono, il sorprendente esordio del russo Zvyagintsev è semplicemente un film sulla complessità del rapporto padre-figlio, sulla difficoltà di educare e trasmettere sapere o valori senza una reale armonia affettiva di fondo; ed anche sul percorso di formazione con cui Andrei ed Ivan, alle prese prima con un principio di autorità con cui sono constretti a confrontarsi e poi con il peso della responsibilità dopo la tragedia, si affacciano alla vita adulta. Ma al di là dell'approfondimento psicologico, il fascino de Il ritorno sta soprattutto nella dimensione universale e mitologica che si è voluto conferire alla storia, con accortezze registiche (inquadrature e movimenti di macchina studiati e suggestivi, la fotografia sporca, i tempi dilatati) e di sceneggiatura (le tante domande che restano fatalmente senza risposta: a cosa è dovuta l'assenza del padre? perchè è tornato? cosa cerca sull'isola?); con riferimenti iconografici espliciti (l'immagine del padre addormentato che riproduce fedelmente il Cristo Morto del Mantegna o quella in cui, incappucciato sulla barca avvolta dalla nebbia, ricorda Caronte); con infausti segni di presagio (la pioggia, la colomba morta, le nubi, ecc.); con un simbolismo cristologico piuttosto evidente (il padre a tavola spezza il pane e distribuisce il vino come fosse un'Ultima Cena, "risorge" di domenica e muore di venerdì, i nomi dei figli corrispondono a quelli latini degli apostoli Andrea e Giovanni e come questi sono spesso mostrati nella veste di pescatori, ecc.). Questo carattere di indefinitezza, di allusività vaga affascina, ma forse è al tempo stesso il limite del film, tanto che si deve ammettere come, pur riconoscendo i meriti e la bravura innegabile del regista, "rimane un forte sospetto di esercizio accademico" (Paolo Mereghetti, Dizionario dei Film). Leone d'Oro a Venezia.



Regia: Andrei Zvyagintsev
Anno: 2003


Giudizio: ***1/2

giovedì 21 ottobre 2010

Lo Zio Boonmee Che Si Ricorda Le Vite Precedenti


Lo zio Boonmee (Thanapat Saisaymar), uomo anziano e malato, si sente vicino alla fine dei suoi giorni e decide di traferirsi, con cognata e nipote, in una casa vicina alla giungla per curarsi in tranquillità ed aspettare la propria ora. Gli faranno visita lo spirito della moglie morta ed il figlio, scomparso molto tempo prima ed ormai trasformatosi in scimmione dagli occhi di brace.
Quello di Boonmee è un viaggio a ritroso verso origini lontane e dimenticate, un ritorno al Tutto che he nella caverna-utero, luogo di nascita e morte di vite presenti e passate, la propria rappresentazione allegorica; un viaggio che conduce lo spettatore in una dimensione atemporale e fantastica, in cui coesistono sincreticamente passato e futuro, vivi e morti, creature e spiriti, leggenda e realtà; un viaggio, ancora, dal carattere mitico e suggestivo, specialmente laddove la telecamera di Weerasethakul si addentra nel fitto di una natura misteriosa ed ancestrale o profetizza, in una sequenza che fa pensare ad un'istallazione videoartistica, un inquietante futuro militarizzato per il popolo thai. Non è necessario soffermarsi sull'influenza che inevitabilmente ha, su gusti e sensibilità, il retroterra culturale dello spettatore per capire quanto possa risultare distante ad un pubblico occidentale un film che guarda apertamente alla storia, alle credenze, alle tradizioni ed all'immaginario thailandese. Il che è forse il principale limite di un titolo più adatto a chi ama i linguaggi cinematografici sperimentali e d'avanguardia (nonchè la commistione di stili e toni, dal lirico al faceto), molto meno a chi malsopporta ritmi estenuantemente lenti ed inserti narrativi visionari (quando non, come nel caso dell'episodio della principessa e del pescegatto, francamente incomprensibili). Parte del più ampio progetto multipiattaforma Primitive, è stato insignito dell'onoreficenza più alta a Cannes, da una giuria presieduta da Tim Burton.



Regia: Apichatpong Weerasethakul
Anno: 2010


Giudizio: **1/2

martedì 19 ottobre 2010

The Prestige


Nella Londra di fine Ottocento, gli illusionisti Robert Angier (Hugh Jackman) ed Alfred Borden (Christian Bale) sono grandi rivali sul palcoscenico e nemici giurati nella vita, da quando la moglie del primo è morta per un incidente durante l'esecuzione di un pericoloso trucco, la responsabilità di cui Angier attribuisce all'altro. Fra inganni, vendette, gelosie e donne contese, l'eterna sfida fra i due non ha mai fine e li vede entrambi ossessionati dall'idea dell'illusione per eccellenza, il "trasporto umano", per realizzare la quale Angier si spinge fino a Colarado Springs, alla ricerca dello scienziato Nikola Tesla (interpratato da David Bowie!).
Una magia, spiega Nolan sin dall'inizio del film, si compone di tre momenti fondamentali: la promessa, la svolta ed infine il prestigio, ossia la conclusione sorprendente e spettacolare. Fedele a tale enunciato, utilizza lo stesso schema narrativo per mettere in scena il romanzo The Prestige di Cristopher Priest: dopo aver condotto lo spettatore su false piste ed averlo fuorviato con diversi colpi di scena, lo sbalordisce con un finale inaspettato per quanto ben costruito e preparato. Al centro di questo intreccio complesso, ma avvincente, si stagliano Angier e Borden, due personaggi a tutto tondo, a tal punto posseduti dall'amore narcistico per lo spettacolo in sè e per il proprio pubblico (evidenti i riferimenti hollywoodiani) da sacrificare ad esso l'intera esistenza, gli affetti, la propria morale. Ma quello della devozione, totalizzante ed assoluta, ad un'arte non è l'unico tema: si riflette anche, seppur senza andare troppo in profondità, sul confine fra finzione e realtà e sui risvolti etici di ogni applicazione tecnologica del sapere scientifico. Sceneggiatura, scenografie e bravura degli attori sono dunque i cardini di un film che, pur senza troppe pretese, nel complesso non dispiace. Oltre ai nomi già citati, quelli di Michael Caine, Rebecca Hall e Scarlett Johansson completano un cast di primissimo piano.



Regia: Cristopher Nolan
Anno: 2006


Giudizio: ***

Affetti e Dispetti


Raquel (Catalina Saavedra) è una governante quarantunenne che da vent'anni presta servizio presso la stessa famiglia. Affettuosamente legata ai bambini che ha cresciuto, oberata dal lavoro domestico nel quale si annulla fino all'esaurimento psicofisico, entra in crisi quando la padrona di casa decide di affiancarle un'aiutante: vedendo messo in discussione il proprio ruolo egemone nelle cose di casa, assume un attegiamento apertamente ostile e sottopone la malcapitata di turno ad ogni possibile angheria. Solo la giovane Lucy (Mariana Loyola) saprà conquistarsi la sua amicizia e finirà per cambiarle la vita.
Al di là del messaggio vagamente buonista (l'apertura al prossimo, il calore umano, la solarità migliorano la vita umana), la commedia del cileno Sebastian Silva si distingue per originalità, attenzione alle caratterizzazioni (il personaggio di Raquel, anche grazie all'acclamata interpretazione della Saavedra, incuriosisce e diverte anche) e per uno stile di regia curato, caratterizzato da una telecamera mobile e sempre vicina ai personaggi che scorta con frequenti piani medi e primi piani. L'osservazione distaccata (sottolineata dalla quasi totale assenza di colonna sonora) è funzionale ad un piccolo studio delle dinamiche familiari, degli atteggiamenti vessatori ed ostracizzanti che possono aver luogo anche in ambito domestico, dell'alienazione stakanovistica che può intorpidire anche la più vitale personalità. Di simpatia contagiosa alcune sequenze, come quella in cui Lucy, chiusa fuori casa da Raquel, ne approfitta per prendere il sole in un improbabile topless o quella del goffo incontro intimo fra Raquel e lo zio di Lucy. Premiato al Sundance. Insensate tanto la traduzione del titolo, quanto la versione italiana della locandina.

Il merito maggiore del film, però, è quello di saper tenere sempre un tono simpaticamente leggero e spensierato (Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera)


Regia: Sebastian Silva
Anno: 2009


Giudizio: ***

sabato 16 ottobre 2010

La Stanza del Figlio


Giovanni (Nanni Moretti) è uno psicanalista anconetano dalla vita serena: ha una bella moglie, due figli adolescenti ed il benessere economico. La morte improvvisa del figlio Andrea (Giuseppe Sanfelice) in un incidente durante un'immersione subacquea, però, lo sconvolge, mette in crisi il rapporto con la moglie Paola (Laura Morante) e la figlia Irene (Jasmine Trinca), lo spinge a lasciare il lavoro. Solo l'incontro con la fidanzatina del figlio ed un singolare viaggio assieme sembra rendere in qualche modo ancora possibile uno spiraglio di armonia familiare.
Nanni Moretti affronta un tema introspettivo ed intimista come l'elaborazione del lutto (tanto più tremendo, essendo quello di un figlio), mostrando, con convincente realismo, come l'improvvisa tragedia spezzi equilibri che sembravano cristallizzati e certezze che apparivano acquisite nella tranquillità della quotidiantà borghese. Le reazioni di chi è rimasto sono divergenti ed incompatibili: Giovanni tenta di razionalizzare il dolore, si tormenta con i rimorsi, cerca di esprimere ciò che resta invece fatalmente inesprimibile (la lettera che riscrive continuamente senza successo); Paola si abbandona al contrario ad una disperazione urlata ed inconsolabile, che rifiuta con angoscia ogni tentativo di normalizzazione; Irene, infine, reagisce con rabbia. Chiusi nelle rispettive solitudini, si scoprono incapaci di comunicare, impotenti di fronte all'assurdità del destino ed alla caducità dell'esistenza, non più in grado di far i conti con una vita che continua, nonostante tutto. Moretti è bravo ad assumere un tono non ricattatorio ma sincero, nel far risuonare gli stati d'animo con gli oggetti (le ceramiche sbeccate, i chiodi che chiudono la bara), è impietoso nel non risparmiare allo spettatore neanche i momenti più duri (l'ultimo saluto alla salma), ma è una scelta necessaria per renderne effettiva la compartecipazione emotiva. Interessante anche il tema collaterale del ruolo dello psicanalista, del delicato rapporto con i pazienti (dei quali ci viene offerta un'ampia ed a tratti buffa panoramica), della difficoltà nel mantere in ogni circostanza il dovuto distacco. Unica pecca, forse, la recitazione di Moretti, un po' troppo compassata. Palma d'oro a Cannes.



Regia: Nanni Moretti
Anno: 2001


Giudizio: ****

venerdì 8 ottobre 2010

Il Tempo Che Ci Rimane


Rivisitazione autobiografica delle vicende della famiglia del regista Elia Suleiman (che, all'inizio ed alla fine del film, interpreta se stesso) dal 1948 (anno di fondazione dello Stato di Israele) fino ai giorni nostri. E' una storia di palestinesi in una terra che non appartiene loro (Suleiman è arabo-israeliano), raccontata attraverso le memorie e le esperienze del padre Faud (Saleh Bakri), ricostruite dai suoi diari, dell'infanzia e dell'adolescenza del giovane Elia ed infine della sua età matura. Non esiste però un filo narrativo propriamente detto, se non labile, si assiste sostanzialmente ad una successione di episodi, situazioni, aneddoti (spesso ripetuti) che ripercorrono oltre mezzo secolo di (impossibile) convivenza fra due popoli: dalla resistenza armata di Faud, all'attivismo politico di Elia, dal suo esilio al ritorno in patria, attonito e sbigottito dall'assurdità di una condizione e dall'immutabilità di un tempo che sembrano dover durare per sempre (il titolo originale è The time that remains), fra l'indifferenza delle nuove generazioni. Suleiman aveva già in passato sorpreso il pubblico occidentale con uno stile capace di fondere spirito militante ed una netta presa di posizione filo-palestinese (e quindi anti-israeliana) con la leggerezza dell'ironia, del paradosso, del nonsense. Si mantiene qui fedele a se stesso, combinando con successo sequenze drammatiche (quella della donna uccisa a sangue freddo dai militari israeliani che stava incitando credendoli ribelli o anche quella che mostra i prigionieri palestinesi inginocchiati, legati e bendati, in un campo d'ulivi) con gag semicomiche (il vicino di casa che si ubriaca e si cosparge di carburante ma non riesce mai a darsi fuoco). La comicità di Suleiman non vuole però introdurre distacco, bensì straniamento di fronte all'insensatezza delle angherie sopportate dai palestinesi e delle paronoie israeliane, con i risultati migliori nell'ultima mezz'ora del film, surreale e vicina, nelle mimiche, ai grandi classici del muto. La sequenza iniziale in cui, sotto un violento temporale, un tassista si smarrisce in un luogo che non conosce e si chiede angosciato ed incredulo cosa stia succedendo è chiaramente metaforica ed evocativa.



Regia: Elia Suleiman
Anno: 2009


Giudizio: ***