venerdì 30 aprile 2010

Paranormal Activity


A dieci anni da The Blair Witch Project, Paranormal Activity ne ripete il fenomeno: film horror realizzato a bassissimo budget (15.000 dollari), è diventato un successo commerciale di portata mondiale, anche grazie ad un marketing particolarmente malizioso. Nulla di innovativo, nè nella storia (casa infestata da una presenza demoniaca e sede di fenomeni soprannaturali), nè nel tema (la lotta fra razionalità e forze occulte). Il tutto è filmato, e qui è forse l'elemento più originale, da una telecamera lasciata volutamernte accesa ventiquattr'ore su ventiquattro. L'espediente funziona per due motivi: dà un taglio documentaristico e quindi più credibile alla vicenda ed al contempo si presta perfettamente a focalizzare la tensione, allorquando il timer riportato sullo schermo, come se effettivamente si trattasse di una ripresa amatoriale, accelera durante la notte per poi rallentare improvvisamente, preannunciando l'imminenza di qualche spaventosa manifestazione. Parallelamente il climax che segna il precipitare degli eventi mantiene viva la suspense, mentre l'aver saputo puntare su fobie inconsciamente intime (paura del buio, paura di essere sorpresi nella vulnerabilità del sonno) favorisce l'immedesimazione dello spettatore. Infine, pregio da non sottovalutare, si punta sul non visto, sul non mostrato, con esiti indubbiamente inquietanti, almeno fino al finale, un po' deludente (diverso, fra l'altro, da quello presentato ai festival e da quello dell'edizione in DVD).

Insomma, il film dell'esordiente Oren Peli non si distingue, nè per spessore, nè per creatività, ma assolve bene il compitino di tenere lo spettatore inchiodato alla poltrona, il che è in fondo quello che si chiede ad un film di questo genere.



Regia: Oren Peli
Anno: 2009


Giudizio: **1/2

La 25a Ora


Nel 2002, all'indomani dell'immane tragedia dell'11 settembre 2001, il popolo americano non poteva fare a meno di porsi degli interrogativi: cosa sono diventati gli Stati Uniti? Qual è il senso di quello che è accaduto? Come è stato possibile arrivarci? Soprattutto: qual è il futuro, se ne esiste ancora uno, di questo paese? C'è ancora qualcosa in cui sperare? Il merito de La 25a Ora è quello di non affrontare queste questioni in modo didascalicamente diretto (pochi infatti i riferimenti espliciti, fra cui la suggestiva vista notturna di Ground Zero), ma di sbieco, trasponendole nella vicenda di Monty (Edward Norton), di cui ci racconta le ultime ore di libertà, prima di scontare la condanna a sette anni di galera per spaccio, la cui imminenza incombe ineluttabile nel tempo dilatato di un giorno e di una notte. E' l'occasione per fare i conti con se stesso e con gli altri, ripercorrere il passato, gridare la propria rabbia (ormai celebre il monologo allo specchio), affrontare rimorsi e paure, chiudere le questioni rimaste aperte, dire le cose mai dette prima. I personaggi che gli fanno da contorno sono ben scelti e rappresentano le contraddizioni della modernità: il carrierismo arrivista e cinico, il perbenismo puritano ed ipocritica, l'opportunismo interessato, l'edonismo vuoto, le scorciatoie immorali per il benessere a tutti i costi. Ma non sono solo simboli, hanno un'anima, vivono ognuno il proprio conflitto interiore, la propria fragilità. Sono i cittadini di un'America che si è smarrita e che fatica a compendere ed elaborare il lutto che porta, ma che non si è ancora arresa. E' il cane straziato del prologo che precede i titoli di testa, agonizzante ma ancora rabbiosamente vivo. Sono le ferite sul volto gonfio e tumefatto del Monty dell'ultima sequenza, che si chiede se esista un'altra possibilità, un altro destino, un nuovo sogno americano.

Le scelte stilistiche di Spike Lee non ci vanno sempre a genio, specie nella prima parte: vanno bene le contaminazioni, ma alcune trovate le apprezziamo più in uno spot pubblicitario o in un videoclip musicale che su uno schemo cinematografico. Nell'ultima mezz'ora, però, il registro si fa più intensamente lirico, coinvolgente. La violentissima scazzottata fra Monty ed il suo amico di una vita Frank (Barry Pepper) ed il tragitto in auto verso il carcere assieme al vecchio padre James (Brian Cox) sono momenti di grande carica emotiva, di quelli che lasciano il segno.



Regia: Spike Lee
Anno: 2002


Giudizio: ***1/2

martedì 27 aprile 2010

Burn After Reading


Un istruttore di fitness sciocco e muscoloso (Brad Pitt), una donna single che frequenta siti di incontri ed ha il chiodo fisso della chirugia estetica (Frances McDormand, moglie di Joel Coen), un ex-agente CIA irascibile e mezzo alcolizzato (John Malkovich), un marito infedele ossessionato dal sesso (George Clooney). Quando le loro strade si incrociano, ne nasce un incredibile guazzabuglio, con esiti tragici. I Coen attingono a piene mani dallo star system hollywoodiano per una commedia divertente, ben sceneggiata e diretta con mano esperta, dal retrogusto amaro. Per i Coen, lo sappiamo, la vita è un intreccio incomprensibile di contingenze, casi fortuiti e scelte morali (qui tutte sbagliate), le cui conseguenze incalcolabili danno vita a vicende sconclusionatamente bizzarre, quando non assurdamente drammatiche. Oltre il divertessment, emerge un atto di sfiducia nei confronti della modernità e dei suoi luoghi comuni, nonché dell'umanità in generale, di cui si irride la stoltezza. Il nichilismo è radicale e non risparmia nulla: le istituzioni (la CIA è dipinta come un teatrino di personaggi ridicoli e senza scrupoli), gli istituti sociali (il matrimonio non ha più senso, è destinato ad essere tradito e fallire), le relazione inter-personali (dominate da egoismo, superficilità, cinismo). Se in Non è un paese per vecchi si salvava almeno lo sceriffo, sconfitto ma coerente con i propri valori, qui il titolare della palestra Ted, l'unico che sembra animato da buon senso ed un sentimento autentico, finisce per adeguarsi al nonsense dilagante. Spassosissimi i dialoghi fra i due pezzi grossi dell'intelligence, che fanno da commento all'intera vicenda: "Mi faccia un rapporto non appena..non lo so...quando tutto avrà un senso". Geniale.



Regia: Joel ed Ethan Coen
Anno: 2008


Giudizio: ***

domenica 18 aprile 2010

Basta che Funzioni


Dopo il periodo delle commedie di ambientazione europea, Woody Allen torna a girare nel suo habitat naturale, Manhattan, e segna un ritorno alle origini anche nello stile e nei temi: Basta che funzioni ricorda molto più da vicino Io e Annie che non Match Point. Boris Yelnikoff (alter ego di Allen, anche se interpretato dal poco noto in Italia Larry David) è un professore universitario non più in attività che è stato perfino in odore di Nobel, uomo colto, intelligente, ateo e liberal. Ma anche narcisista e misantropo, ipocondriaco, soggetto a crisi d'ansia ed attacchi di panico, pieno di nevrosi e compulsioni. Radicalmente pessimista, convinto assertore dell'inutilità dell'uomo e della sua esistenza, esprime il proprio nichilismo attraverso un sarcasmo sferzante, che riesce però ad essere (come sempre nei film di Allen) irresistibilmente divertente. Melodie (Evan Rachel Wood, già vista quest'anno in The Wrestler) è invece una giovane del sud, ignorante, ingenuotta, superficiale, ma dotata di un istintivo e gioioso entusiasmo per la vita, di una spontanea empatia verso il prossimo. Quando le strade dei due si incrociano, finiscono per sposarsi. La paradossalità dell'incontro fornisce ad Allen il pretesto per irridere, con l'usuale ironia tagliente e verbosa, la religione, il sesso e la psicanalisi naturalmente, ma anche la società, l'attualità, la storia americane e perfino il cinema (imperdibile il monologo in apertura rivolto direttamente al pubblico). Quando poi entrano in scena i genitori di Melodie, bigotti, reazionari, cristiani ferventi e convinti sostenitori dell'Associazione Nazionale Armi, il contrasto fra due mondi, l'America illuminata e radical-chic della East Coast e l'America profondamente conservatrice e gretta della Bible Belt, produce i risultati più esilaranti.
Ma Allen stavolta è forse meno corrosivo del solito: lascia infatti un messaggio, che per certi versi sembrerebbe consolatorio: pur nella caotica insensatezza ed instabilità che la contraddistingue, la vita può essere degna di essere vissuta se si rinucia a ricercarvi un disegno ed un significato ben riconoscibili e ci si limita a godere dei brevi e fugaci attimi di felicità che a volte ci regala l'imperscrutabile ed imprevedibile chimica delle vicende umane.


Regia: Woody Allen
Anno: 2009

Giudizio: ***1/2

giovedì 15 aprile 2010

A History of Violence


Se ci si limitasse a considerare A History of Violence un thriller convenzionale, non avremmo da dire molto: una storia non particolarmente complessa, un discreto livello di suspense, personaggi interessanti, un regolamento di conti finale. Un film come tanti altri. Ma sarebbe una lettura parziale, miope. Cronenberg mostra, ma non cerca di indurre l'immedesimazione dello spettatore, la telecamera è un occhio discreto che riprende con distacco, che indaga. Non è un caso se le scene meno realistiche sono forse quelle più violente: lo straniamento che allenta il willing suspension of disbelief è un invito a seguire Cronenberg in una delle riflessioni più profonde sulla natura della violenza umana dai tempi di Arancia Meccanica. Si scopre allora un tesoro tematico di grande ricchezza: significato dell'identità personale (siamo il prodotto delle nostre azioni presenti e passate o ciò che vogliamo apparire fino a convincerci di esserlo? E' possibile cambiare, riabilitarsi? Siamo in grado di autodeterminarci attraverso un codice di regole morali o siamo irrazionalmente dominati dall'istintualità più inconscia?); necessità di affrontare i fantasmi del passato, anziché rimuoverli, per elaborarli e liberarsene definitivamente, in modo da giungere ad una più matura, consapevole comprensione di sè; ruolo che l'uso della forza ha nelle vite degli uomini e nella strutture sociali. La famiglia modello, il quadretto idilliaco del mito dell'American dream che ci viene inizialmente presentato è lentamente trascinato in una deriva di brutalità che esplode con inaspettata ferocia. La rimozione delle nostre pulsioni più oscure è illusoria: sono connaturate nell'uomo e nella Storia. Pur non senza travaglio, la famiglia (e per estensione, la società) finisce per accettare la vera natura di Tom/Joey (Viggo Mortensen), a difenderla, a rivendicarla: è il sogno americano che svela le sue radici insanguinate, la tacita accettazione, socialmente condivisa, della legge del più forte, la normalizzazione dell' abuso della forza prevaricatrice nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, oltre qualunque volore etico, oltre ogni umanesimo. "Non ci sono mostri" dice Tom alla figlioletta, in una delle scene iniziali. Personaggi e spettatore scopriranno invece, insieme, non solo che i mostri esistono davvero, ma che ce n'è uno in ciascuno di noi.


Regia: David Cronenberg
Anno: 2005

Giudizio: ****

mercoledì 14 aprile 2010

La Promessa dell'Assassino


Per un'ora abbondante, La Promessa dell'Assassino sembra candidarsi ad essere un film che resta, di quelli da ricordare.

Vuoi per la ricca galleria di personaggi, la cui caratterizzazione è approfondita dall'indagine introspettiva: il glaciale Semyon, tremendo padre-padrone di una famiglia allargata (che è in realtà un clan della mafia russa); l'istrionico, volubile Kirill (Vincent Cassel), figlio buon a nulla, succube dell'autorità paterna, che si ubriaca per sfuggire alla propria inadeguatezza e, forse, all'omosessualità latente, svelata fra le righe; la fragile, ma determinata Anna (Naomi Watts), animata dalla forza dei sani principi e dall'innato istinto materno, frustrato dalla perdita del bambino in gravidanza; infine, l'ambiguo, complesso, tormentato Nikolai (un eccellente Viggo Mortensen), vittima ("Io sono già morto"), carnefice e giustiziere al tempo stesso.
Vuoi per lo sguardo prima distante e ironico (lo zio Stepan è una macchietta che strappa più di un sorriso) e che poi, man a mano che la voce fuori campo rivela l'orrore dei terribili segreti custoditi nel diario della giovane Tatiana, si fa più partecipe, colmo di pietà per le vittime inermi di un male assoluto, onnipresente, che genera altro male in una catena interminabile.
Ma c'è anche una regia sapiente ed impeccabile (si riconosce la firma d'autore); una fotografia ammirevole che vira cromaticamente sui colori foschi di una Londra cupa e piovosa e su un rosso vivo, sanguinolento; un'attenzione ossessiva (tipica di Cronenberg) per la fisicità, nei dettagli anatomici, nel figurativismo plastico di corpi scultorei, affrescati da tatuaggi che raccontano storie di vita (indimenticabile la nudità di Nikolai nella sequenza del bagno turco); il ritratto di un mondo (quello degli immigrati russi, ceceni, ucraini, georgiani), con le sue regole ed i suoi codici, dentro un altro mondo (la Gran Bretagna che scorgiamo appena, in controluce) vicino eppure così lontano.

Ci sarebbe tutto, se in quell'ultima mezz'ora non accadesse che la sceneggiatura si affanna nello sforzo non ben giustificato di far quadrare il cerchio, di far tornare i conti. Non ci hanno convinto la rivelazione a sorpresa dell'identità di Nikolai, l'infatuazione troppo scontata fra lui ed Anna, l'emancipazione frettolosa di Kirill. Basta poco, purtroppo, per mortificare un grande film. Ci piace credere che ci sia dietro lo zampino, inopportuno, della produzione.


Regia: David Cronenberg
Anno: 2007


Giudizio: ***

martedì 13 aprile 2010

Frost/Nixon - Il duello


Da un lato un uomo, il presentatore David Frost (Michael Sheen), con un'idea brillante, determinato a trasformarla in progetto, a credervi ostinatamente, disposto a mettere con coraggio a rischio denaro e carriera, che non si arrende alle difficoltà, anche quando nessuno sembra più aver fiducia in lui, perchè sa che è la grande occasione della vita (rielaborazione del mito tutto americano del self made man). Dall'altro un gigante con i piedi di argilla, l'ex presidente Nixon (Frank Langella) costretto alle dimissioni a seguito dello scandalo Watergate, ansioso di riabilitarsi ed autoassolversi dinanzi alla nazione. I due danno vita ad un agone oratorio dal sapore antico, fino alla clamorosa ammissione di Nixon ("Se è il Presidente a farlo, vuol dire che non è illegale"), manifesto di una concezione del potere antitetica ai principi fondanti della democrazia e che suona come la sentenza del processo che lo statista non ha mai avuto. In Nixon, di cui Howard mostra anche il lato più umano, il narcisismo, le debolezze e la solitudine (la telefonata notturna è un momento di intima intensità), non c'è pentimento, ma solo il rammarico per l'amara consapevolezza che non avrà un posto d'onore nella Storia. Sullo sfondo, l'elogio del giornalismo vero, che graffia, che ricerca la verità senza indugi ossequiosi ed accondiscendenze e la riflessione sul potere dei mass media, in grado di contribuire a costruire la percezione condivisa del presente e del passato.



Regia: Ron Howard
Anno: 2008



Giudizio: ***

V per Vendetta


In un futuro prossimo, la Gran Bretagna si è trasformata in un regime totalitario, che ricorda, anche iconograficamente, i nazi-fascismi: propaganda spudoratamente bugiarda, controllo totale dei mezzi di comunicazione, repressione violenta e censura omologante, persecuzione delle minoranze ed abolizione delle libertà personali. Un fantomatico personaggio mascherato, V, si batte contro la tirannia, con atti eclatanti ed uccisioni mirate, con la speranza di risvegliare le coscienze delle masse assoggettate e per perseguire una propria, personale vendetta. Lo assiste la giovane Evey e fra i due nascerà l'amore. Finale dolce-amaro. Ispirato ad una serie a fumetti, è un film pieno di rimandi, da Il Conte di Montecristo ad Il Fantasma dell'opera sul piano narrativo, da Orwell a Huxley per l'immaginario fantapolitico, ma c'è anche l'influsso di Chomsky. V è un simbolo e non se ne fa mistero, fino a palesare definitivamente la metafora ideologica ed il messaggio libertario nella suggestiva sequenza finale. Tuttavia, la fantasiosa caratterizzazione del personaggio (dal costume d'epoca al linguaggio squisitamente forbito, dal gusto per la citazione letteraria all'abilità anacronistica di maneggiare spade e pugnali) contribuisce a renderlo affascinante pur nella sua intrinseca astrattezza. Curiosa l'onnipresenza della lettera V, mentre la parentesi sulla prigionia di Evey con la rivelazione finale è un momento di cinema di grande spessore.

Film visionario, denso, sbilanciato, barocco ed apocalittico, va premiato, pur nella sua imperfezione, per la ricchezza ed il coraggio: accennare ad un attacco alla popolazione ordito dal potere politico per creare un clima di terrore e giustificare un'involuzione autoritaria non è da tutti, almeno in piena era Bush, post-11 Settembre.


Regia: McTeigue
Anno: 2005


Giudizio: ***1/2

domenica 11 aprile 2010

Changeling


Los Angeles, anni 20: tornando dal lavoro, Christine Collins (Angelina Jolie, nella sua migliore interpretazione), giovane madre sola, scopre la scomparsa del figlio di 9 anni. Dopo qualche mese arriva la felice notizia del ritrovamento, ma Christine si accorge subito che il bambino ritrovato non è il suo Walter. Inizia così una lunga battaglia personale con il Dipartimento di Polizia per dimostrarlo. Additata come pazza paranoica, viene fatta rinchiudere in manicomio, ma lentamente la verità emerge. Nella sequenza ad effetto della lettura in contemporanea dei verdetti relativi a due processi diversi, si compie finalmente giustizia, ma non c'è soddisfazione, non c'è rivalsa: resta solo il turbamento di fronte a ciò di cui la natura umana è capace, a tutti i livelli (si tratti di un funzionario di polizia o di un assassino seriale di bimbi). In un film dal registro classico e controllato, in cui ogni inquadratura è misurata e funzionale al racconto, Clint Eastwood affronta il tema del rapporto fra cittadino ed istituzioni, che quando sono corrotte ed incapaci diventano strumento di controllo e sopruso, se non di persecuzione. Riflessione tanto più amara, quanto calata nel contesto dell' "esemplare" democrazia americana. Peccato che, nella preoccupazione di veicolare il messaggio il più chiaramente possibile, alcuni passaggi suonino vagamente didascalici. C'è anche il tema della labilità del confine fra contestazione dell'autorità e follia, con la denuncia del rischio che l'una venga fatta passare per l'altra, e l'indagine sul male, scandita nelle tappe del delitto, della colpa e del castigo. Se la scena dell'impiccagione è dura da digerire, quella del piccolo che scava per ritorvare le ossa dei bambini da lui stesso seppelliti è un pugno nello stomaco.

Eastwood racconta tutto con l' occhio di chi sembra rassegnato alla sconfitta, alla corruzione, al dolore ma senza che questa coscienza diventi strumento per scavarne nelle «cause» o per trovarne delle «ragioni». (Palo Mereghetti, Il Corriere della Sera)


Regia: Clint Eastwood
Anno: 2008

Giudizio: ***

sabato 10 aprile 2010

Revolutionary Road


April (Kate Winslet) e Frank (Leonardo Di Caprio) sono agli occhi del vicinato una famiglia modello: hanno due bei figli, una buona posizione sociale ed una casa invidiabile. Non solo: sono intelligenti, colti, raffinati, si sentono speciali. E sprecati. Sprecati per la monotonia piccolo-borghese, per la noiosa semplicità delle loro frequentazioni, per lavori mediocremente ordinari. Revolutionary Road è dunque un film incentrato su un conflitto interiore: fra l'incapacità di accettare e di adeguarsi alla realtà e l'insicurezza, la mancaza del coraggio di mettersi in gioco, della forza d'animo per cercare di inseguire realmente i sogni che alimentano le proprie illusioni. Mendes mostra i meccanismi di evasione che la coppia mette in atto per rimuovere la scissione che nasce dal conflitto: tradimenti, bugie consapevoli, l'idealizzazione di Parigi, città lontana e irraggiungibile, come unico luogo in cui è possibile realizzarsi. Sarà un conoscente, psicologicamente disturbato, la voce della coscienza che costringerà il conflitto ad emergere in superficie ed esplodere in tutta la sua virulenza, come a dire che solo l'impertinente libertà della follia può spingersi oltre le convenzione sociali che April e Frank detestano, ma dietro i cui meccanismi protettivi si celano. Da questo momento le strade dei due si separano irreversibilmente: Frank riesce pragmaticamente a ricavarsi un ruolo nel mondo vero, piuttosto che in quello immaginato. April invece no, rimane radicale nel rifuto tout-court del compromesso, anestetizza le emozioni perchè la sofferenza è sempre più intollerabile ("Perchè non dici quello che senti, April?" "Io non sento niente"), trasferisce sul feto che ha in grembo l'odio che nutre per se stessa e per la propria inadeguatezza ed abortendo crede di uccidere quella parte di sè che la trattiene dal sentirsi libera e finalmente viva. "Autopsia di un matromonio" (Dizionario dei film Morandini), Revolutionary Road è un film intimista, abile nel mettere in scena con la "freddezza di una dissezione" (Dizionario dei film Morandini) le dinamiche di una coppia in crisi, non più capace di amarsi e, forse, di vivere.



Regia: Sam Mendes
Anno: 2008

Giudizio: ***1/2

venerdì 9 aprile 2010

Non è un Paese per Vecchi


Texas, 1980: la consegna di una partita di droga è finita in carneficina. Il protagonista si imbatte per caso sulla scena del misfatto e trova, oltre a diversi cadaveri ed un bandito morente, una valigetta zeppa di quattrini. Siamo al primo bivio: portarla con sé o lasciarla lì? La tentazione è irresistibile e così la decisione è presa. Secondo dilemma: tornare con dell’acqua per dare sollievo al moribondo o disinteressarsene abbandonandolo a morte certa? Un barlume residuo di umanità risolve il secondo dilemma. Da queste due scelte, una con connotazione eticamente negativa, l’altra positiva, scaturisce una serie inarrestabile di delitti, una spirale di violenza. A questa riflessione sul ruolo del destino e del libero arbitrio, si aggiunge un terzo elemento: il caso. E così un impassibile killer (un ottimo Bardem, la cui interpretazione gli è valsa diversi premi, fra cui l’Oscar), implacabile angelo della morte che uccide secondo un codice assurdo ma rigoroso, delega al lancio di una monetina la salvezza o la condanna delle sue vittime. Lo sceriffo, narratore e coscienza morale del film, dà voce ad una malinconica rassegnazione. Quello dei fratelli Coen è un thriller nichilista (girato, come al solito, con maestria e stile), in cui non c’è reale speranza di salvezza: è il segno dei tempi e di un paese che non è più per chi continua a ricercare un senso nella vita, dei valori universali cui attenersi.


Regia: Ethan e Joel Coen
Anno: 2007


Giudizio: ***1/2

giovedì 8 aprile 2010

Shutter Island


Shutter Island è un isola-manicomio criminale in cui un agente federale (Leonardo Di Caprio) è inviato per indagare sulla scomparsa di una paziente, misteriosamente fuggita. Con queste poche informazioni iniziali, lo spettatore è condotto attraverso un viaggio che si rivela presto discesa agli inferi nei meandri della psiche, allucinata esplorazione di uno spaventoso mondo di pazzia. Shutter Island è un punto di non ritorno, dove il sonno della ragione genera mostri: siano essi ricordi tormentati dai più atroci sensi di colpa, sogni incoffessati, visioni ricorrenti, violenze indicibili, sospetti angoscianti, paure ancestrali. Equilibrista costantemente in bilico sull'orlo del baratro della follia, il protagonista si trova a combattere contro fantasmi veri e immaginati, nella ricerca disperata di un punto fermo cui aggrapparsi e lasciando il dubbio irrisolto fino alla fine sulla vera natura della verità (se ha senso, alla luce del continuo rimescolarsi delle carte in tavola, parlare di un'unica verità definitiva) e con un senso di inquietudine che diviene via via più palpabile. Martin Scorsese si misura con il genere del thriller, si diverte a giocare coi suoi clichè (l'ambientazione in un luogo impervio e isolato dal mondo esterno, l'ostilità degli elementi naturali, lo spiazzante ribaltamento di prospettiva finale), mantiene la tensione viva fin in fondo e riesce a creare un'atmosfera pirandelliana, estraniante, in alcuni momenti surreale. Qualche battuta sulla natura ontologica della violenza, trascendente le sovrastrutture morali, non è abbastanza per sviluppare un tema tanto complicato. Tirando le somme, l'operazione può dirsi quindi riuscita, ma con la costrizione di rispettare tempi e modi del genere il respiro non è ampio come in altre occasioni.

Regia: Martin Scorsese
Anno: 2010

Giudizio: ***

Gran Torino


La Gran Torino del titolo è una lussuosa auto d’epoca, che Walt (Clint Eastwood), vecchio reduce burbero ed introverso, custodisce gelosamente. E’ un simbolo: rappresenta un universo di valori (culturali, morali ed anche estetici) appartenenti al passato, che la contemporaneità non è in grado di comprendere, rispettare e conservare. Si contrappone alla vuotezza di una modernità desolante, che se non è scioccamente frivola e superficiale o opportunista (le famiglie dei figli di Walt), è rozzamente violenta ed arrogante (la gang). Ma è proprio laddove Walt non avrebbe mai cercato, nel vicinato di immigrati asiatici (verso cui nutre inizialmente un’astiosa diffidenza), nelle loro tradizioni sociali, nella loro gentilezza d’animo e gratitudine, che scopre una speranza nel futuro e nelle nuove generazioni. La speranza di un’altra America e di un’altra umanità. Avviene così il miracolo di un vecchio conservatore razzista, chiuso ermeticamente in sé, che diviene portavoce di un messaggio di conciliazione e apertura alla diversità. Ma Gran Torino è anche molto altro: ci parla senza semplificazioni del rapporto padre-figli (adottivi in senso lato, come già in Million Dollar Baby); della responsabilità educativa delle vecchie generazioni nei confronti delle nuove; della religione che riesce a parlare alle persone solo abbandonando la prosopopea del sermone per farsi spiritualità intima, discorso personale; del Bildungsroman (letteralmente, romanzo di formazione) di due adolescenti che si affacciano alla vita adulta attraverso l’esperienza drammatica ma formativa del sopruso, del dolore e della perdita. Il finale è un capolavoro, geniale da un punto di vista narrativo, maturamente realista in quanto la liberazione dal male non avviene senza sacrificio. La morte, affrontata con la dignità e la serenità di chi è consapevole di essere giunto al termine di un percorso esistenziale, è momento di transizione, in cui il testimone passa di mano e come eredità resta quello che si è saputo insegnare, i valori che si sono trasmessi. E’anche il saldo di un conto aperto dai tempi della guerra in Corea, che ha lasciato ferite profonde e mai del tutto rimarginate. In Gran Torino c’è dunque tutto: ricchezza e complessità di tematiche, una storia che funziona, un’ironia laconica, uno stile rigoroso la cui asciuttezza rimuove quanto sarebbe superfluo, riuscendo ad emozionare profondamente ed a mostrare la sofferenza con stupefacente essenzialità senza mai incappare nel sentimentalismo, nella retorica del luogo comune. Ormai 80enne, uno dei migliori registi in circolazione e attore dal talento intatto, Clint Eastwood è un patrimonio a cui il cinema odierno non può ancora permettersi di rinunciare.


Regia: Clint Eastwood
Anno: 2008


Giudizio: ****1/2

mercoledì 7 aprile 2010

Bastardi Senza Gloria


Quentin Tarantino è un regista che va preso per il verso giusto. I suoi film, i migliori almeno, sono racconti accattivanti, narrati con stile inconfondibile, impreziositi da dialoghi spesso memorabili ed arricchiti da un universo di rimandi e citazioni talmente fitto da rendere impossibile coglierne tutte le sfumature. A voler andare oltre, a cercarvi altro, una chiave di interpretazione o semplicemente una visione del mondo, si rischierebbe di perdere di vista ciò che realmente è Bastardi Senza Gloria: il piacere di raccontare una storia, facendolo per altro molto bene.
Il tema della vendetta (caro già in passato a Tarantino, ma che assume qui una dimensione più epica) si coniuga nell'intreccio di due vicende parallele che convergono nella sequenza finale, assolutamente da antologia, autentico rito di espiazione per la coscienza della civiltà occidentale, il cui potere liberatorio è pari a quello di una seduta psicanalitica. Grazie anche a quella deformazione grottesca cui lo humor nero tarantiniano sottopone ufficiali e gerarchi nazisti, stolidamente ottusi quando non sguaiatamente osceni (Goebbels, Hitler), che in qualche modo facilita l'immedesimazione in un manipolo di eroi vendicatori, tutt'altro che convenzionali. Era dai tempi di Pulp Fiction che aspettavamo questo
momento: bentornato Quentin.

E' il cinema il vero trionfatore di questo film divertente, spensierato e colorato, che si può permette di riscrivere i destini della Seconda Guerra Mondiale in nome della passione cinefila. Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera

Regia: Quentin Tarantino
Anno: 2009

Giudizio: ***1/2

martedì 6 aprile 2010

In the Mood for Love


La moglie ed il marito dei protagonisti, coniugi spesso assenti (tanto da non comparire mai in scena) hanno una relazione che, figlia della menzogna, si nutre dello squallore del sotterfugio, è forse più carne che anima. Wong Kar Wai decide di non mostrarla: ne veniamo a conoscenza solo attraverso le parole sospese, i sussurri, le lacrime e i sospiri dei coniugi traditi e consapevoli. In un film sull’amore, non c’è posto per questo non-amore vigliacco, privo del coraggio del sentimento autentico. In controluce si delinea timido, invece, il prodigio dell’amore nascente, delicato e inaspettato, dalle ceneri della comune sofferenza, fra i due sposi amareggiati, smarriti nel naufragio della propria esistenza. Questo film minimalista narra solo questo: la purezza di un sentimento fragile e cristallino, platonico e insicuro, fatto di momenti, di poesia, di contatti fugaci, sguardi, pianti e sorrisi. Un amore impossibile, la cui forza dirompente sta nel rimanere anelito inespresso, desiderio inappagato, eternizzando così la fugacità, sublimando nella memoria, nel rimpianto della rinuncia, nel ricordo affidato ad un sussurro segreto bisbligliato nella fessura di un muro. Il racconto, in fondo semplice ed essenziale, è impreziosito dalla fotografia suggestivamente onirica, dall’armonia dei colori, dai dialoghi intensi e soprattutto dalla meravigliosa vibrante colonna sonora, che porta un contributo importante alla capacità di emozionare di questo piccolo gioiello di estetica e di cinema. Qua e là spunti sul rapporto fra finzione e realtà, sul loro interscambio e completamento (metacinema?).

Regia: Wong Kar Wai
Anno: 2000

Giudizio: ***1/2

A Serious Man


Film complesso ed enigmatico, che formula molti interrogativi ma fornisce poche risposte. Come la vita. E proprio questo sembra il messaggio dei Coen: l'esistenza umana è qualcosa di intrinsecamente inspiegabile, un intreccio di avvenimenti scorrelati, qualsiasi tentativo di scorgervi un disegno provvidenziale o una logica razionale rimane inevitabilmnete frustrato (neanche la religione, su questo i Coen sono piuttosto espliciti, ha risposte convincenti). Lo sguardo è quello di chi, pur con il sorriso a fior di labbra dell'ironia, commisera la superficialità e la stoltezza di un'umanità alle prese con le insignificanti banalità della vita ed incapace di afferrare il nonsense, di percepire il disorientamento figlio di una totale mancanza di significato. Non c'è etica premiante, la giustizia è una categoria interpretativa che non si applica al caso/destino. Si sorride quindi, ma è un sorriso amaro. La lettura in chiave ebraica (l'analogia fra il protagonista e la figura biblica di Giobbe) che molta critica ha proposto è incoraggiata dal prologo che resta volutamente corpo estraneo al resto del film, come a dire che se non ci sono coerenza e linearità nelle vicende umane, perchè dovrebbero essere presenti nella loro trasposizione cinematografica?

Ancora una volta i Coen tendono fino all'estremo la corda, sfiorando un happy end, per poi capovolgere tutto con il colpo di coda dell'ultima battuta e dell'ultima inquadratura. Battuta e inquadratura che azzerano e (insieme) moltiplicano qualsiasi dubbio sul senso ultimo del film. Cabalistico. (Marzia Gandolfi, mymovies.it)

Il loro film è una grande, sarcastica domanda. Con le facce, con i discorsi, con i corpi usuali e insieme grotteschi dei loro personaggi interrogano l'ingiustizia insensata del mondo. E non c'è risposta che basti alla loro curiosità. Così avviene in tutto il loro cinema geniale, del resto. (Roberto Escobar, Il sole 24 Ore)


Regia: Ethan e Joel Coen
Anno: 2009

Giudizio: ***1/2

District 9


E' possibile trovare ancora un modo originale per portare sugli schermi cinematografici un tema tanto classico ed esplorato come quello dell'invasione aliena? Occorre ammettere che District 9 ci riesce piuttosto bene. Cambiando le carte in tavola: i visitatori extra-terrestri non arrivano con intenti bellicisti e colonizzatori, nè tantomeno per cercare un contatto, un incontro fra civiltà. Ma semplicemente per errore, per un guasto tecnico. E l'umanità reagisce al fenomenale evento con ridicola grettezza, dimostrando la propria radicale incapacità di affrontare ciò che è ignoto e diverso, se non attraverso la barbarie della ghettizzazione, dell'emarginazione sprezzante, della segregazione. Non senza l'ipocrisia di un finto buonismo, in nome di uno spirito di fratellanza che è solo vuota forma, dichiarazione di principio in cui nessuno crede davvero. Pregio del film è quello di saper affondare il colpo, muovendo una critica dura e pungente alla civiltà occidentale senza retorica, ma con lo strumento originale e acutamente ironico del "mockumentary" che usa taglio e toni documentaristici per rendere quanto più credibile e attuale la finzione narrativa: sembra di assistere alle immagini (tristemente abituali) provenienti da un campo profughi o da una favela. E la critica è tanto più efficace quanto man mano che la vicenda si snoda, si palesa l'espediente che rende possibile e anzi naturale il ribaltamento di prospettiva: il tema della metamorfosi (sempre intimamente inquietante, nella sua lunga tradizione che va da Kafka a Cronenberg), trasformazione che permette di cambiare punto di vista, di trovarsi improvvisamente dalla parte dell'altro, per scoprirne le sofferenze e le ragioni. E così, dopo varie scene d'azione dal sapore un po' convenzionale, si giunge al finale del film, che lascia un chiaro messaggio e la sensazione di esser valso il prezzo del biglietto.



Regia: Neill Blomkamp
Anno: 2009


Giudizio: ***

Milk



Harvey Milk è stato il primo gay dichiarato ad essere eletto ad una carica pubblica negli Stati Uniti. Morto assassinato, è diventato un simbolo della lotta per i diritti civili della comunità omosessuale. Gus Van Sant narra la sua vicenda, ossia la storia di un uomo che, stanco di vivere la diversità in segreto, matura la decisione di uscire dalla clandestinità e rivendicare la propria dignità, fino a divenire punto di riferimento nella lotta alla discriminazione ed alla emerginazione delle minoranze (non solo sessuali) da parte di una società ottusa e schiava della propria insensata irrazionalità. In generale, è la storia della presa di coscienza di uno stato di ingiustizia, che viene gradualmente rifiutato come tollerabile normalità, ma affrontato per ciò che realmente è, ovvero l'insopportabile negazione di un diritto, il rifiuto e l'insulsa rimozione di una condizione naturale. In particolare, è la storia di un uomo animato da coraggiosa volontà, che non china il capo davanti alle inevitabili sconfitte, che ha l'umiltà di accettare il compromesso quando richiesto dalla causa, che finisce per sacrificare, nel vortice in cui si trova proiettato, gli affetti e gli amori della propria sfera privata. Sean Penn, nei panni del protagonista, è autore di un'interpretazione che definire strepitosa è forse dir poco: Oscar strameritato.


È come se il film in qualche modo non volesse procedere in sintonia con la popolarità sempre maggiore di Milk (nella comunità gay e non solo), cercasse di evitare la trappola di una mitizzazione soprattutto mediatica e si sforzasse di ricordare che Milk è prima di tutto persona e solo dopo «hero» o «icon». Paolo Mereghetti, Corriere della Sera


Regia: Gus Van Sant
Anno: 2008

Giudizio: ***1/2

lunedì 5 aprile 2010

Avatar


Occorre dirlo chiaramente: per sensibilità personale ed in nome di una certa idea di cinema, i colossal hollywoodiani non ci sono mai andati a genio e che Avatar sia da ascriversi alla categoria appare piuttosto scontato. Altrettanto schiettamente, però, occorre rendere giustizia a James Cameron: pur con i limiti che diremo, è innegabile che il film che ha incassato di più nella storia del cinema sia ben riuscito. La storia, per quanto non brilli per originalità, è nel complesso convincente e la regia ha indiscutibili meriti nel rendere tutt'altro che indigesta la durata (oltre due ore e quaranta minuti), mantenendo avvincente fino alla fine il ritmo narrativo, senza tempi morti. Le scenografie, ancor più che gli effetti speciali, sono incantevoli e di grandissimo impatto visivo. I moderni mezzi tecnologici trovano impiego sapiente, offrendoci un gioellino di tecnica ed innovazione. La riflessione sulla realtà virtuale e sullo sdoppiamento che essa permette (il tema dell'Avatar, appunto) ed il substrato filosofico ispirato ad un certo naturalismo panteista conferiscono spessore alla narrazione. Abbiamo apprezzato anche l'impegno civile che non è così comune trovare in questo tipo di produzioni, che spazia dal messaggio ecologista alla denuncia implicita (ma piuttosto chiara, in verità) delle politica imperialista statunitense in Medio Oriente. Venendo alle riserve cui abbiamo fatto cenno, quella che ci è rimasta è l'impressione di qualcosa di già visto (Cameron rielabora, non senza abilità, molta cinematografia recente, da Matrix a Balla coi lupi), di un certo schematismo manicheo nella caratterizzazione dei personaggi e nella distinzione fra buoni e cattivi, da cui purtroppo non ci si riesce pienamete a liberare.


Dove Cameron convince meno è nella troppo superficiale lettura dello scontro tra terrestri distruttori e nativi difensori della natura. Se il problema del riequilibrio ecologico del nostro pianeta è di stringente attualità, il modo migliore per ricordarlo non è certo riducendo tutto a una specie di favoletta mistica dove militari muscolosi e affaristi senza cuore interpretano i cattivi (Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera)


Regia: James Cameron
Anno: 2009

Giudizio: ***

Le Vite degli Altri



Repubblica Democratica Tedesca, 1984, il regime socialista esercita un controllo pressoché totale sui cittadini, attraverso il proprio strumento più pervasivo e potente: l'organizzazione di spionaggio nota come Stasi. Questo film ci racconta la storia di un suo agente, il capitano Gerd Wiesler, che colma la propria solitudine partecipando, emotivamente (ma non solo), alle vicende di chi spia, vivendo "le vite degli altri" del titolo, di cui diviene al tempo stesso spettatore e regista. Pur collocandosi in un contesto storico ben preciso, di cui pure mostra le miserie morali, Le vite degli altri affronta tematiche di ampio respiro: il rapporto fra classe intellettuale e potere, in bilico fra prostituzione (neanche troppo figurata) ed il bisogno etico di contestare, di denunciare, di tener fede alla verità; il ruolo e le responsabilità dei singoli di fronte ai grandi eventi storici in generale ed ai totalitarismi in particolare; i sentimenti, le emozioni, l'empatia e la pietà come salvezza dall'opera di disumanizzazione dei regimi di terrore. Nella figura di Gerd si scorgono quanti hanno saputo affrancarsi dalle catene dell'ideologia e dall'illusione dell'ideale, in una graduale e sofferta presa di coscienza che, fatta di titubanze e piccoli eroici gesti quotidiani, ha lentamente trasformato tanti "buoni" servitori del Partito in una moltitudine silenziosa, ma ferma di anonimi oppositori. Il finale ("epilogo di tristezza emozionante", Dizionario dei Film Morandini) è un tributo a tutti loro, veri artefici della caduta del Muro. Meno evidente, forse, la riflessione fra le righe sul rapporto fra l'artista ed il suo pubblico e sul ruolo catartico della rappresentazione artistica.

Addomesticare regia e sceneggiatura a tematiche tanto universali da un lato ed alla veridicità storica dall'altro è impresa non facile, il che ci induce a sorvolare su qualche passaggio che non ci ha convinto appieno (uno su tutti: l'incidente alla compagna dell'autore teatrale Dreyman, troppo funzionale all'impianto narrativo per non destare qualche perplessità).


Regia: Florian Henckel von Donnersmarck
Anno: 2006

Giudizio: ***1/2

domenica 4 aprile 2010

Il Figlio


Piccolo capolavoro di cinema di verità, la cui concretezza ed essenzialità si traducono in uno stile lucido e asciutto, con dialoghi ridotti all'osso, ma estremamente naturali ed incisivi. La telecamera è usata in modo originale ed efficacemente funzionale. Vari i temi: degrado giovanile, rieducazione attraverso l'etica del lavoro, relazione padre-figlio, perdono, dolore interiore e ricerca di un senso da dare all'esistenza dell'uomo dinanzi alle grandi tragedie della vita. Il rapporto fra Olivier e Francis è di notevole complessità e ambivalenza: un padre che, cercando il figlio che non ha più, cerca al tempo medesimo se stesso ed è combattuto dall'amore-odio verso chi ha distrutto il suo sogno di felicità, ma gli sta ora offrendo un'ancora di salvezza nel pieno di una crisi esistenziale (anche il matrimonio è infatti naufragato). Negli sguardi, nei silenzi, nei piccoli gesti apparentemente di poco conto, vi è un'espressività senza pari. Eccellenti le interpretazioni degli attori.


Regia: Luc e Jean-Pierre Dardenne
Anno: 2002

Giudizio: ****

sabato 3 aprile 2010

Big Fish



Inno al potere creativo della fantasia, all'immaginazione come espressione di libertà, come chiave per accedere ad una visione delle vita più densa di significato e più meritevole di essere vissuta. Ma Big Fish è anche una film di (buoni) sentimenti: se saltuariamente pecca in un accenno di sentimentalismo un po' più scontato, un po' più a buon mercato, si tratta comunque di un peccato veniale. La galleria di personaggi che ci accompagnano attraverso le storie fantastiche di Ed Bloom è curiosa e variegata e permette a Tim Burton di sfoggiare la ricchezza del proprio talento visionario.



Regia: Tim Burton
Anno: 2003


Giudizio: ***1/2

venerdì 2 aprile 2010

The Wrestler


Lottatore di wrestling al tramonto, Randy (un Mickey Rourke in stato di grazia, anche per la vicinanza biografica con il personaggio che interpreta) non si rassegna al trascorrere del tempo, che ha reso le glorie del passato ormai solo un ricordo. Rimpianto di ciò che è stato, ma non è più, e rimorso per quello che avrebbe potuto essere, ma non è stato, sono i fantasmi con cui Randy si trova a fare i conti, in un drammatico bilancio esistenziale che lo pone davanti ad un bivio: accettare realisticamente la fine di una stagione della propria esistenza per cominciare una nuova vita o inseguire masochisticamente quei fantasmi fino alla fine, costi quel che costi. Aronofsky mostra la parabola discendente di un eroe negativo, solo e ferito, devastato nel fisico e nell'animo. Molto si gioca sul contrasto: fra la forza bruta, muscolare del lottatore e la sua intima umanissima fragilità, fra le vittorie sul ring ("l'unico posto dove non mi faccio male"), vera linfa vitale a cui non sa e non può rinunciare, e i cocenti fallimenti nella vita. Per un attimo, la salvezza appare possibile: è nell'affetto dell'amica spogliarellista e nel recuperato rapporto con la figlia che Randy sembra colmare il proprio bisogno di amore, che cerca e trova una forza interiore che non sapeva di avere. Ma l'illusione dura poco: il destino della sconfitta incombe inesorabile ancora una volta, assieme a quella vocazione irrimediabilmente autolesionista che perseguita quelli che la società è solita chiamare perdenti.

Il wrestling, sport spettacolare ed artificiale per antonomasia, in cui messa in scena ed emozioni autentiche si fondono per la soddisfazione del pubblico, si presta molto bene come metafora della finzione cinematografica e del complesso rapporto fra rappresentazione e realtà.



Regia: Darren Aronofsky
Anno: 2008


Giudizio: ****

giovedì 1 aprile 2010

Collateral


Il tassista Max si ritrova, suo malgrado, a fare da autista per una lunga notte al killer professionista Vincent (Tom Cruise), che è a Los Angeles per compiere cinque omicidi su commissione. L'umanità del primo si contrappone alla glaciale, alienata freddezza del secondo, ma alla fine ognuno imparerà qualcosa dall'altro. Alcune sequenze sono più che degne di nota: la visita alla madre di Max in ospedale, la chiacchierata sul Jazz con una delle vittime, l'incontro con il boss, la sparatoria in discoteca. Ogni tanto si sorride, il che non guasta. I dialoghi fra Max e Vincent sono di indubbia intensità, quando un'enfasi un po' forzata non li fa suonare artificiosi. Sarebbe un film davvero ben riuscito se l'ultima mezz'ora non cedesse molto alla banalità di genere. Peccato.



Regia: Micheal Mann
Anno: 2004


Giudizio: ***