lunedì 31 maggio 2010

The Road


Tratto dall'omonimo romanzo di Cormac McCharty (autore di Non è un Paese per Vecchi): la Terra, sconvolta da un disastro non meglio specificato, è divenuta landa cupa, fredda ed abitata da pochi sopravvissuti, impauriti ed affamati. Un Padre (Viggo Mortensen) e suo Figlio si mettono in cammino verso sud, in cerca del mare: hanno con loro pochi stracci, misere razioni di cibo ed una pistola con due pallottole, per difendersi o per per farla finita qualora dovesse accadere il peggio, che in un mondo abbrutito e senza più civiltà significa cadere nelle mani dei cannibali. Lottano contro il freddo e gli stenti, sono continuamente in pericolo, fanno incontri rischiosi e spiacevoli, ma preseguono senza fermarsi, perchè consapevoli di essere gli ultimi portatori del "fuoco", quel che resta di un'umanità immiserita ed arida.
Hillcoat si rivela all'altezza del compito: tradurre in immagini le atmosfere che McCharty ha fissato sulla pagina. Lo fa grazie ad una fotografia perfetta, cinerea e gelida nel ritrarre la desolazione del presente, quanto calda e morbida nell'illuminare i ricordi del passato; a scenografie angosciosamente apocalittiche; ad attori quanto mai credibili, nella loro smunta precarietà; ad un commento musicale elegante e suggestivo. Ma è nella storia che il film ha la sua forza: il mito del viaggio di formazione calato in un mondo in cui il tempo si è fermato e non esiste più futuro, il rapporto fra un padre ed un figlio di intensità quasi religiosa, i dilemmi morali (cos'è il Bene? Chi sono i buoni della Storia e chi i cattivi? Quali valori è ancora possibile trasmettere?) e le diverse scelte di chi si arrende allo scempio dei tempi (la Madre, interpretata da Charlize Theron) e di chi compie un'assunzione di responsabilità estrema, verso un Dio che non si vede ed una civiltà che ha fallito. L'universo di simboli (il fuoco, il bambino, il rifugio, lo scarabeo: solo alcuni fra tanti) si svela nella sua ricchezza senza sillogismi, ma attraverso l'espressività visiva delle immagini. Angosciante, spietato, escatologico, The Road è un film di sconsolata lucidità, ma non rinuncia alla speranza di un'umanità che sappa rinascere dalle proprie ceneri (morali). Per lo sguardo algido è stato accusato di essere senz'anima: noi la consideriamo invece una cifra stilistica. E quanto al finale, troppo facile e svelto, è un difetto del romanzo, prima che del film.



Regia: John Hillcoat
Anno: 2010


Giudizio: ****

martedì 25 maggio 2010

21 Grammi


Dopo il successo di Amores Perros, Inarritu sbarca ad Hollywood e mette insieme un cast di star per il secondo capitolo della trilogia che completerà con Babel. Ancora una volta, è un incidente stradale a collegare tre storie: un pick-up investe un uomo e le sue due bambine, uccidendoli. Christina (Naomi Watts), rimasta vedova e sola, riprende ad abusare di droghe ed alcool. Jack (Benicio Del Toro) è l'investitore: un tempo delinquente ed ex-detenuto, si è convertito ad una fervente fede cristiana che la tragedia mette però in crisi. Infine, Paul (Sean Penn) è gravemente malato di cuore e benificia di un trapianto grazie a Christina, che decide di donare gli organi del marito defunto. Le vite dei tre si intrecciano sempre più, fino al climax finale in cui Paul e Christina, divenuti amanti, decidono di uccidere Jack per vendetta.
Rispetto al film precedente, Inarritu estremizza la frammentazione del racconto, alternando in rapida successione (tramite un montaggio serrato) le tre storie parallele e ricorrendo a continui flashback e flashforward. Deve passare una mezz'ora prima che lo spettatore inizi a raccapezzarci qualcosa: se in Amores Perros la tecnica sembrava al servizio di un'idea, qui è più fine a se stessa, con l'unico apparente scopo di spettacolarizzare il contenuto tragico. Ci sono spunti interessanti nei temi affrontati, come l'inconciliabilità fra fede e presenza del male nel mondo, il senso dell'identità alla luce delle manipolazioni del corpo (trapianto, inseminazione artificiale, aborto), l'insensatezza dell'esistenza umana a cospetto dei grandi drammi della vita. Anche l'introspezione psicologica dei personaggi non si ferma alla superficie. Tuttavia, Inarritu insiste un po' troppo sulla rappresentazione dello strazio, come se fosse consapevole che lo spezzettamento della progressione drammatica degli eventi in pezzi di un puzzle da ricostruire (un po' a fatica) ne sterilizza in parte la carica emotiva. La digressione finale (pronunciata dalla voce fuori campo di Paul) che spiega il significato del titolo (fino allora incomprensibile) non aggiunge granchè, risultando, tutto sommato, superflua.

Regia: Alejandro Gonzalez Inarritu
Anno: 2003

Giudizio: **1/2

sabato 22 maggio 2010

Amores Perros


Primo lungometraggio del regista messicano Inarritu. Alla base del suo cinema c'è la teoria del caos e del butterfly effect, secondo cui la realtà è un complesso tessuto di relazioni ed interdipendenze, sicché eventi apparentemente non correlati interagiscono attraverso catene di causalità difficilmente tracciabili e dagli esiti imprevedibili. Tecnicamente, ciò trova espressione negli espedienti propri di quello che è stato definito hyperlink cinema, basato su sceneggiature sofisticate in cui diverse vicende si intrecciano tramite uno o più punti di contatto ad un primo sguardo casuali, i punti di vista si alternano, la narrazione è frammentata dal montaggio e non lineare (con frequenti balzi in avanti ed indietro nel tempo).
In Amores Perros è attorno ad un incidente automobilistico che ruotano tre episodi. Nel primo, il giovane Octavio si innamora di Susana, moglie del fratello Romiro (rapinatore gretto e violento) e cerca di racimolare con le scommesse sui combattimenti fra cani il denaro per fuggire con lei. Nel secondo, l’editore Daniel lascia la famiglia per andare a vivere con l'amante, la bellissima modella Victoria, che perde però una gamba a seguito dell'incidente in auto e la coppia va in crisi. Nel terzo, infine, l'ex guerrigliero El Chivu, che ha abbandonato la moglie e la figlia Maru molti anni prima, viene incaricato di compiere un omicidio su commissione. Quest'ultimo è senz'altro l’episodio più riuscito e la sua mezz'ora conclusiva vale da sola il Premio della Critica a Cannes, con un paio di sequenze (il confronto fra i fratelli rivali e la telefonata di El Chivu a Maru) assolutamente da antologia. Anche il primo episodio non sfigura per tensione drammatica ed intensità figurativa, mentre il secondo, un po' troppo banale e forzato nelle metafore, è senz'altro il meno ispirato dei tre.
Inarritu rappresenta i diversi strati sociali della società messicana (classe popolare, middle-class e sottoproletariato) e punta sull'analogia tematica come collante fra le storie raccontate. Queste sono infatti accomunate dalla centralità del rapporto fra protagonisti e cani (perros, appunto) e quindi dal dualismo fra umanità e bestialità. Ma Inarritu spazia, sommando la riflessione sulla problematicità dei rapporti umani (mostra infatti conflitti fratricidi, matrimoni falliti, famiglie divise, tradimenti, abbandoni) a quella sull'indissolubilità del connubio fra amore e violenza ed al tema della perdita (sottolineato dalla frase che si legge in chiusura: "Siamo anche ciò che abbiamo perso"). Ne emerge il quadro di un'umanità moralmente immiserita, incapace di accettare e gestire la responsabilità derivante dalle proprie scelte.
L'accusa di sensazionalismo mossa da certa critica non è a nostro parere giustificata, se non in minima misura.


Regia: Alejandro Gonzalez Inarritu
Anno: 2000


Giudizio: ***1/2

venerdì 21 maggio 2010

The Departed


Colin (Matt Damon) e Billy (Leonardo di Caprio) sono cresciuti a Boston, in un quartiere di irlandesi, regno del boss Frank Costello (Jack Nicholson). Entrambi sono poliziotti: il primo è un agente modello, zelante, dalla carriera esemplare, ma in realtà è un uomo di Costello, cui rende conto; Billy è invece impulsivo, tormentato ed è in polizia solo perchè ha accettato il difficile compito di infiltrato. Avranno a che fare l'uno con l'altro, sia perchè si troveranno a condividere inconsapevolemnte la stessa donna, sia perchè cercheranno di smascherarsi vicendevolmente. Finale sanguinoso. Scorsese si muove su un terreno che conosce bene, quello del gangster movie, ed è visibilmente a proprio agio. Forte di una trama solida (non priva di colpi di scena e capacità di presa sullo spettatore) e consapevole di una collaudata padronanza del genere, si prende il lusso di interrogarsi su temi complessi quali quelli del doppio, della maschera e dell'identità, analizzata sia nella sua dimensione personale (chi è davvero Billy se ormai parla, agisce e pensa come uno scagnozzo di Costello?) che sociale (se le uniche prove del vero ruolo di Billy vengono cancellate, come può rivendicare la veridicità di un io che non gli appartiene più?). Ma ancora più urgente appare la riflessione sul relativismo delle definizioni di bene e male, sulla loro indistinguibilità ed indecidibilità in una società le cui istituzioni appaiono corrotte quanto i malfattori che combattono, due facce di una stessa medaglia. E' vero che Scorsese non si risparmia qualche trucchetto del mestiere (la metafora un po'grottesca del topo sulla ringhiera, un finale che fa contento il pubblico), strizzando probabilmente l'occhio alla notte degli Oscar (ed al botteghino), ma è perdonabile ad un film che vede un Leonardo di Caprio ormai maturo e completo ed un Jack Nicholson in splendida forma, capace di regalarci col suo Costello una mefistofelica, irridente presenza.


Regia: Martin Scorsese
Anno: 2006


Giudizio: ***1/2

martedì 18 maggio 2010

Crazy Heart


Cantante country ormai vicino ai sessanta, Bad Blake (un bravo Jeff Bridges) è in pieno declino artistico, in bolletta ed allo sbando nella vita. Soffoca nell'alcol, di cui è schiavo, il rimpianto dei tempi in cui era in auge, il rimorso per i matrimoni falliti ed il figlio abbandonato da piccolo, l'incapacità di accettare il successo di Tommy (Colin Farrell), un tempo suo allievo ed ora star popolare ed acclamata. Con l'affettuoso supporto dei vecchi amici e grazie al legame con la giovane Jean (Maggie Gyllenhaal) e suo figlio Buddy, Bad riesce a rimettersi in carreggiata, sia da un punto di vista professionale (torna a comporre, proprio per Tommy, una canzone di successo dopo una lunga crisi di ispirazione), che esistenziale (smette di bere e ritrova l'entusiamo di vivere).
Tratto da un romanzo di Thomas Cobb, Crazy Heart ripropone in modi convenzionali una storia già di per sè non particolarmente originale (evidente la somiglianza con The Wrestler, anche se Crazy Heart è più visceralmente americano), raccontando la parabola discendente di un uomo, solo, verso l'autodistruzione psico-fisica, finché la mediazione di una donna redentrice non ne rende possibile la riabilitazione. Ma non è una favola buonista: i nodi del passato restano irrisolti e l'amore sognato si rivela impossibile. Passa comunque il messaggio ottimistico che c'è sempre, per tutti, un'occasione per ricominciare, un'altra possibilità.
Pur mancando forse quella intensità drammatica che lo avrebbe reso più di un buon film, può vantare una prova corale degli attori degna di encomio ed una colonna sonora di canzoni country originali di tutto rispetto.


Regia: Scott Cooper
Anno: 2009

Giudizio: ***

domenica 16 maggio 2010

Robin Hood


Ridley Scott sceglie di raccontare non la leggenda di Robin Hood (qui interpretato da Russel Crowe), ma i suoi antefatti: il ritorno dalla crociata condotta da re Riccardo Cuor di Leone (che vi ha trovato la morte), l'arrivo a Nottingham e l'incontro con i futuri compagni Little John, frate Tuck e Lady Marion (Cate Blanchett), l'aiuto prestato per respingere l'invasione francese, l'ostilità del nuovo re Giovanni che lo costringe a rifugiarsi in clandestinità nella foresta di Sherwood. Non giudichiamo negativamente l'aver scelto una prospettiva insolita per portare ancora una volta sullo schermo un personaggio la cui storia è nota a tutti, nè consideriamo inaccettabili le incongruenze rispetto alla versione "ufficiale" del mito e neppure i vari passaggi il cui realismo è, se non altro, discutibile. Ciò per cui Robin Hood delude è che risulta mediocre in quelli che ci si sarebbe aspettati esserne i punti di forza: l'epicità delle battaglie, una narrazione avvincente, figure momorabili e scenografie mozzafiato. Si scopre invece che la caratterizzazione dei personaggi è ridotta all'essenziale, riuscendo meglio, paradossalmente, laddove è più estremizzata (il meschino e frustrato re Giovanni); che le scene di combattimento sono insipidamente convenzionali; che i dialoghi non riescono mai ad essere incisivi. Resta l'impressione di un film non brutto, ma privo di carattere e di un Ridley Scott ormai troppo lontano dai tempi di Blade Runner, che rimane indubbiamente il suo unico capolavoro. Il finale lascia pericolasamente aperta la strada ad un ipotetico sequel, sperabilmente meno inutile.


Regia: Ridley Scott
Anno: 2010


Giudizio: **

sabato 15 maggio 2010

Il Profeta



Malik (il quasi esordiente Tahar Rahim), giovane arabo-francese, entra in carcere neppure ventenne, solo, senza un soldo, sprovveduto e disprezzato per le sue origini. Ne esce sei anni più tardi, ormai divenuto un boss temuto e rispettato, grazie alla protezione offertagli da un padrino della mafia corsa, Cesar Luciani (Niels Arestrup), ma soprattutto in virtù della straordinaria capacità di comprendere e convincere gli altri ed anticiparne le mosse, che è poi il vero significato del titolo. Storia di un percorso di formazione alla rovescia, Il Profeta scandisce le tappe della maturazione di un giovane attraverso le esperienze negative della violenza (l'assassinio che è costretto a compiere all'inizio del film è un battesimo del sangue, un'irreversibile perdita di innocenza), del sopruso, della menzogna, del tradimento. Se sulle prime un'altra via sembra possibile, quella del recupero e del reinserimento, della scuola e dell'apprendimento di un mestiere, presto tale possibilità si rivela illusoria e Malik è forzato a compiere scelte che sono in realtà costrizioni dettate dalla necessità di sopravvivere all'interno di un meccanismo su cui non ha alcun controllo (e qui la riflessione di Audiard sembra trascendere i confini della realtà carceraria per farsi discorso più generale sulla condizione umana). Impara rapidamente come muoversi in carcere per non restare isolato, ne comprende le regole non scritte, apprende ad ascoltare e farsi ascoltare, intuisce le dinamiche del potere e degli affari e le fa proprie. Quando riuscirà a liberarsi di Luciani, padre putitavo utilitarista ed arido, il processo di crescita è compiuto.
Film meticolasamente realista nella cura dei dettagli con cui mostra i lati oscuri del sistema carcerario, Il Profeta offre un'immagine della società francese, ormai intrinsecamente multietnica, in cui il nuovo (qui il clan degli arabi) si fa strada disfacendosi del vecchio (i corsi), ma lo sguardo di Audiard non è nostalgico, non c'è pietas, nè giudizio morale. E laddove si fa onirico, mantiene intatta la coesione narrativa (ben risucite ad esempio le sequenze sulle visioni ricorrenti che Malik ha dell'uomo che ha assassinato), tranne in qualche caso (la premonizione sull'incidente col cervo è francamente una sbavatura).
Premiato a Cannes.



Regia: Jacques Audiard
Anno: 2009


Giudizio: ***

mercoledì 12 maggio 2010

Mystic River


Da un romanzo di Lehane: tre bambini, Sean, Jimmy e Dave, giocano per strada quando un'auto si ferma e due uomini portano via Dave con un pretesto: sono pedofili ed abuseranno di lui. Molti anni dopo, ormai adulti, le loro strade tornano ad incontrarsi: la figlia di Jimmy (Sean Penn, ottimo come sempre) è stata uccisa e sul caso indaga Sean (Kevin Bacon) che è nell'FBI, squadra omicidi. I sospetti si concentrano su Dave (Tim Robbins), che finirà per pagare con la vita, seppur innocente.
Pur muovendosi entro la struttura del thriller classico, Mystic River è fine nell'introspezione psicologica dei personaggi (ognuno dei quali convive con un dramma) ed affronta temi universali: l'impossibilità di liberarsi dal passato (la fragilità di Dave deriva dal trauma infantile che ha subito, Jimmy torna ad uccidere quando sembrava aver rinnegato i trascorsi criminali); l'innata conflittualità insita nei rapporti umani; il posto dei deboli in un società dominata dalla costante affermazione della legge del più forte, in cui le questioni private vengono regolate senza la mediazione dello stato di diritto (colpisce la spietata auto-assoluzione che pronuncia la moglie di Jimmy in una delle sequenze chiave del film, così come la beffarda parate finale); l'assenza di Dio, di cui la varia simbologia religiosa non è altro che una dolorosa denuncia. L'oscuro fiume Mystic del titolo richiama l'eterno fluire delle vicende umane, sempre drammaticamente uguali a se stesse. Film notturno, intenso (eccezionale la scena in cui Jimmy, avendo scoperto la morte della figlia, urla al cielo la propria rabbia disperata, trattenuto a stento dai poliziotti che lo circondano), ricco di rimandi interni (la macchina che porta via Dave, la prima volta per ucciderlo nello spirito, la seconda nella carne oppure la croce sull'anello di uno dei rapitori pedofili che ritroviamo tatuata sulla schiena di Jimmy), è secondo ai successivi Million Dollar Baby e Gran Torino solo perchè non raggiunge, pur avvicinandovisi, la stessa perfetta essenzialità tragica. Ma questo, più che un appunto a Mystic River, vuole essere un attestato di stima per gli altri due.

Con uno stile narrativo potente e classico, e con un montaggio che niente lascia di superfluo, Eastwood ci guida in un mondo permeato dalla “moralità” della forza e della vendetta. (Roberto Escobar, Il Sole 24Ore)


Regia: Clint Eastwood
Anno: 2003

Giudizio: ****

domenica 9 maggio 2010

Elephant


Cronaca di un giorno di ordinaria follia: martedì 20 aprile 1999, data del massacro della Columbine High School, quando due studenti uccisero un professore e dodici compagni, ferendone molti altri, prima di suicidarsi. Gus Van Sant ricostrusice gli eventi in modo verosimile, anche se non perfettamente fedele. Il suo intento, d'altronde, è puramente cercare risposta ad un unico raggelante interrogativo: perchè è successo? Elephant è un'indagine che ripercorre le ore dei ragazzi protagonisti della vicenda (nel ruolo di assassini, vittime o sopravvissuti, non importa), prima che si scatenasse l'inferno. Ce li mostra alle prese con la routine di una banale mattina come tante altre, si sofferma su piccoli atti apparentemente insignificanti, su parole che sembrano dette per caso. Non sostiene una tesi, Van Sant, ma esplora i lati oscuri dell'universo giovanile: conflittualità con il mondo adulto, vuoto educativo, mancanza di punti di riferimento, difficoltà comunicative e di relazione, bullismo, rapporto disturbato con il corpo, solitudine. Soprattutto, ci mostra l'angoscia di un disagio interiore inesprimibile, un'apatia emotiva che spersonalizza, che rende incapaci di rapportarsi con la realtà, di orientarsi in una dimensione appiattita in cui tutto è osservato con lo stesso indifferente distacco, sia esso un videogioco violento, un filmato sul nazismo oppure il cadavere di un coetaneo. E' un malessere esistenziale visibile come l'elefante del titolo, eppure in molti non lo compresero.
Se la riflessione è profonda, i mezzi che Van Sant usa per esprimerla sono magistrali: frammenta il tempo narrativo per poi ricomporlo come in un puzzle, mostrando più volte le medesime situazioni da punti di vista ogni volta diversi; usa la telecamera per pedinare i personaggi da dietro oppure la lascia in un angolo a spiare da lontano, come in attesa di una rivelazione, di una chiave interpretativa o ancora scruta i volti in lunghi piani sequenza, disinteressandosi dell'azione fuori campo; ricorre al sonoro come unica forma di commento, affidandosi ora alla musica classica di Beethoven, ora ai silenzi, ora alla casualità dei rumori di fondo per creare un'atmosfera come sospesa, ovattata; adopera il potere evocativo delle immagini (il cielo oscurato dalle nubi), senza abusarne. Ci hanno visto lungo a Cannes (arrivando perfino a modificare il regolamento pur di assegnargli sia la Palma d'Oro che il riconoscimento per la miglior regia), molto meno agli Oscar, il che non è una novità.



Regia: Gus Van Sant
Anno: 2003


Giudizio: ****1/2

sabato 8 maggio 2010

Il Labirinto del Fauno


Spagna, 1944: una vedova di guerra ha sposato uno spietato capitano dell'esercito franchista, di cui è incinta, per assicurare protezione ed un futuro a sè ed alla figlia, la piccola Ofelia. Lui, dal canto suo, vuole solo una discendenza. Due mondi narrativi coesistono e si fondono. Il primo: la violenta lotta fra i militari del dittatore Franco da un lato, i partigiani datisi alla montagna dall'altro, nel mezzo quelli che si fingono fedeli ai primi, ma silenziosamente aiutano e sostengono i secondi (il medico e soprattutto la domestica Mercedes, figura centrale del film). Il secondo: l'universo incantato che ruota attorno al labirinto del titolo, popolato da creature magiche (insetti-fate, mostri e, soprattutto, il fauno), in cui Ofelia si avventura. Dovrà superare tre prove per dimostrare di essere la reincarnazione di una principessa fuggita molto tempo addietro e tornare per sempre nel reame. Finale tragico, ma non disperato.
Del Toro fonde i generi, creando un ibrido indefinibile a metà strada fra dramma storico e horror fantastico. Non è una scelta fine a se stessa, ma è funzionale ad una dichiarazione di poetica che esalta il potere salvifico dell'immaginazione e della fantasia di fronte alle assurde brutture del mondo. Le tre prove che deve superare Ofelia, come nei più classici riti di iniziazione fiabeschi, sono altrettante fasi nel percorso di liberazione dell'uomo dal male che permea la storia: superamente della paura dell'ignoto, delle tentazioni terrene e soprattutto rinuncià al sè, in un atto di estremo amore ed altruismo verso il prossimo: non è un caso se Inarritu lo ha definito un film cattolico. Ma la non linearità del Labirinto del Fauno lo rende sfuggente alle classificazioni e così vi troviamo anche l'elogio della scelta critica, del rifiuto del cieco senso del dovere, dell'obbedienza dogmatica.
Attento ai temi della perdita dell'innocenza e della colpa (ognuno ha la sua e finisce per pagarla, compresa Ofelia), è un film denso, ricco di ridondanze e suggestioni visive (Del Toro non fa mistero di essersi ispirato alla pittura di Goya), curato nella fotografia (ora calda e luminosa, ora cupa e gelida), bizzarro, visionario, grottesco. Di certo, resta la sensazione di una vitale, fresca originalità, di cui il cinema ha sempre bisogno.


Regia: Guillermo Del Toro
Anno: 2006

Giudizio: ***1/2

mercoledì 5 maggio 2010

Departures


Il giovane violencellista Daigo è alle prese con una crisi di identità: lo scioglimento dell'orchestra in cui suona segna la fine di un sogno coltivato sin da bambino, forse perchè iniziatovi dal padre (che se ne è andato molti anni prima, lasciandolo solo con la madre), ma per il quale non si era mai sentito veramente dotato. Alla ricerca di sè e della propria strada, lascia Tokyo per far ritorno al paesino che gli ha dato i natali. Vi troverà un lavoro singolare: il tanato-esteta, colui che esegue la necro-cosmesi, ossia il rito di ricomposizione e abbellimento della salma, prima della deposizione nella bara. Schernito dalla gente (per gli shintoisti lavorare con i morti è vergognoso e degradante), incompreso dalla moglie, Daigo resta fedele alla nuova missione di cui si sente investito, trovando finalmente un senso nella propria vita, la maturità e con essa la riconciliazione con il doloroso passato di figlio abbandonato.
Yojiro Takita fa una scelta coraggiosa: portare sugli schermi cinematografici un tema, quello funebre, che, se non oggetto di superstiziosa diffidenza, è al centro di un processo socioculturale di rimozione collettiva nelle società contemporanee. Ne emerge una concezione della morte comune nel mondo orientale: momento di passaggio, viaggio verso un diverso grado di esistenza, fase naturale del ciclo della vita. Non è però un film "necrofilo": le gustose mangiate di prelibatezze della cucina nipponica, cucinate dal laconico capo di Daigo (la figura paterna che gli era mancata), sono un inno alla vita ed ai suoi piaceri.
Con Departures (premio Oscar come Miglior Film Straniero) Takita affronta con sensibilità le contraddizioni più profondamente giapponesi, il contrasto fra modernità e tradizione, la scissione tra il frenetico materialismo del presente metropolitano e la spirituale, pacata ritualità che sopravvive nei piccoli centri di provincia, in cui il tempo sembra essersi fermato.
Le circolarità narrative (l'incontro con la morte segna la rinascita di Daigo, la morte di suo padre avviene quando si accinge a sbocciare la nuova vita del bambino che la moglie aspetta), la poesia visiva dei paesaggi, le musiche struggenti, la solenne sacralità del rito funerario, la dignitosa rappresentazione del dolore, il suggestivo simbolismo (i sassi, scambiati per siglare l'indissolubilità dei legami interpersonali), l'armonica commistione di partecipazione emotiva e humor nero sono altrettanti elementi di un film più che degno di nota. Quello però in cui Takita eccede, va detto, è l'insistenza su scelte spudoratamente volte a commuovere: specialmente nel finale si perde infatti parte di quella sobrietà che, se conservata fino in fondo, avrebbe fatto di Departures un capolavoro.



Regia: Yojiro Takita
Anno: 2008


Giudizio: ***1/2

lunedì 3 maggio 2010

Vicky Cristina Barcelona


Dopo la trilogia londinese, Woody Allen opta stavolta per un'ambientazione mediterranea. Sospeso nella magia della calda atmosfera catalana, sottolineato dalla voce narrante fuori campo quasi fosse una fiaba, un intreccio di intrighi amorosi asimmetrici, a geometria variabile (coppie e triangoli che si formano e si sciolgono), è il pretesto per mettere in scena una colorita galleria di tipi umani ed ironizzare sulla contrapposizione (un po'stereotipata) fra l'indole nordamericana, pragmatica e conformisticamente puritana, e quella sudeuropea, invece romanticamente bohemien, ma anche melodrammatica ed inconcludente. Punto di contatto fra le due, Cristina (Scarlett Johansson) e Vicky (Rebecca Hall), giovani americane in vacanza in Spagna per un'estate, ne rappresentano i diversi volti: l'una irrequietamente alla ricerca di se stessa, insofferente agli schematismi sociali ed alle convenzioni borghesi, impulsivamente ansiosa di una libertà anche sentimentale, di cui è però incapace di sposare integralmente l'instabilità e l'anarchia (impersonate alla perfezione, invece, da una Penelope Cruz, nei panni della lunatica Maria Elena, adattissima al ruolo); l'altra, Vicky, più cerebrale, controllata, scissa fra il bisogno e l'angoscia della normalità, intimamente innamorata di un sogno che sa impossibile e che al tempo stesso la spaventa e destabilizza. Nessuna delle due troverà ciò che cerca veramente (e tanto meno l'amore), forse perchè neppure esiste. Allen inizia a delineare tra le righe la filosofia minimalista del "basta che funzioni" che troverà un'espressione più consolatoria nel successivo Whatever Works, rimanendo qui ancora possibilità di vita non soddisfacente, incompiuta. L'impressione è quella di un Allen più trattenuto, più convenzionale del solito e ne è una conferma l'umorismo meno illuminante e dissacrante di altre occasioni. Ma non mancano delle autentiche perle, come la parentesi sul padre del pittore Juan Antonio (Javier Bardem), poeta che odia l'umanità per l'incapacità di amare e la punisce privandola della bellezza delle proprie opere, che non pubblica per scelta.
Ci si passi infine l'arbitrarietà di un'interpretazione psicanalitica: il rapporto fra Juan Antonio e l'ex moglie Maria Elena ha sapore edipico, con lei che, morbosamente possessiva ed invadente nelle avventure amorose di lui, ricorda l'ingombrante ed inibitoria presenza di certe madri latine.



Regia: Woody Allen
Anno: 2008


Giudizio: ***

Inside Man


Quattro rapinatori con l'idea per un colpo geniale, una cassetta di sicurezza che cela il terribile segreto di un insospettabile banchiere, un detective di colore (Denzel Washington) alle prese con lo spinoso caso. Banalmente, la cronaca di una rapina. Ma c'è dietro una sceneggiatura come se ne vedono di rado (inspiegabilmente ignorata agli Oscar), che cura i particolari con meticolosità maniacale, che incastra linee narrative convergenti con la scrupolosità di un meccanismo ad alta precisione, che anticipa quello che sarà (tramite il frequente utilizzo, azzeccatissimo, del flashforward) per spiegare quello che sta avvenendo. Per poi inanellare, nel lungo finale, una sorprendente serie di colpi di scena, chiudendo il cerchio delle supposizioni in cui lo spettatore era stato costretto ad avventurarsi. Il tutto scandito da un montaggio frenetico ed abbellito da una fotografia in chiaroscuro, da film noir.
Il detective Keith ed il capo della banda Dalton (Clive Owen) ingaggiano un duello psicologico a distanza, in cui ognuno cerca di prevedere le mosse dell'avversario, seguendo una strategia che si fa via via più sottile. Finiranno per rendere merito l'uno al valore dell'altro, consapevoli di aver giocato una partita che nessun altro è stato capace di comprendere. Spike Lee non prende posizione, non sta nè con la guardia, nè con il ladro, non ritrae eroi, ma uomini comuni che accettano il compromesso morale, pur restando fedeli ad un'etica più alta. Fanno eccezione il banchiere Case e la spregiudicata mediatrice Madelaine (una notevole Jodie Foster), forse a dire che il male non si annida sempre dove sembra.
Completano il quadro il fascino sempre attuale del ladro gentiluomo ed una vena umoristica che percorre tutto il film, conferendogli una nota di leggerezza che non stona.


Regia: Spike Lee
Anno: 2006

Giudizio: ***



domenica 2 maggio 2010

Cella 211


Giovane secondino al primo giorno di lavoro, Juan Oliver si trova suo malgrado coinvolto in una sanguinosa rivolta carceraria, cui aderisce, fingendosi un detenuto, dapprima per istintivo spirito di sopravvivenza, poi per furiosa disperazione. Questa produzione del regista spagnolo Monzon, pluripremiata in patria, combina una storia efficace nella progressione drammatica e convincente nelle motivazioni psicologiche dei protagonisti con i temi classici del genere (denuncia delle condizioni di vita disumane nei penitenziari, il rapporto sadico fra carcerieri e carcerati, la prigione come strumento istituzionalizzato di fariseico segregazionismo piuttosto che luogo di riabilitazione sociale). In più, la tematica della questione basca, accennata appena ma funzionale alla trama, suggerisce la riflessione sulla priorità della ragion di stato e dell'interesse nazionale rispetto al valore del singolo individuo.
La telecamera segue da vicino i personaggi e spesso forza lo spettatore ad assumerne il punto di vista, l'angolo visuale. Ma non c'è pietismo, non c'è idealizzazione: sono personaggi spesso sgradevoli, violenti, che tradiscono ed ingannano senza rimorso. Anche il rapporto che gradualmente si instaura fra Juan ed il carismatico Malamadre, capo della protesta mosso da un suo personale quanto discutibile codice morale, resta ambiguo fino alla fine, in bilico fra diffidenza e rispetto, fra rivalità e fratellanza.
Notevole la padronanza tecnica del poco noto Monzon, abile a servirsi degli espedienti del mestiere (inquadrature, montaggio, utilizzo di immagini televisive, flashback, ecc.).


Regia: Daniel Monzon
Anno: 2009

Giudizio: ***

L'Uomo che Fissa le Capre


Ispirato ad un libro-inchiesta del 2004 (The men who stare at goats) sulle ricerche condotte dall'esercito statunitense relativamente all'impiego di poteri paranormali per scopi bellici, L'uomo che fissa le capre racconta, avvalendosi di un cast dai nomi importanti, la vicenda del reporter Bob Wilton (Ewan McGregor) che, lasciato dalla moglie e stanco della propria mediocrità, si reca in Iraq alla ricerca del colpo giornalistico che avrebbe dimostrato finalmente il suo valore. Incontra per caso Lyn Cassady (George Clooney), che gli rivela di essere un "Guerriero Jedi" in missione, ossia un membro di un'unità delle forze speciali ("Esercito NuovaTerra") ideata per ridefinire le tecniche di combattimento alla luce di un approccio completamente rivoluzionario, basato su filosofia New Age, tecniche parapsicologiche e stravaganze hippies. Mentre in lunghi, divertenti flashback si ricostruisce la storia di Lyn e Bill Django (fondatore del corpo dei soldati Nuova Terra, interpretato da Jeff Bridges), si scoprirà che non c'è in realtà nessuna missione e le strampalate vicissitudini di Bob e Lyn li porteranno a rincontrare Bill ed il meschino Larry (Kevin Spacey), che ha tradito il credo non-violento degli Jedi.
Per denunciare la follia di una guerra e veicolare un messaggio radicalmente pacifista, esistono due vie: rappresentarne le atrocità con crudo realismo (operando sul piano emotivo), oppure usare le armi sottili della deformazione satirica, dell'ironia tagliente (agendo a livello intellettivo). Grant Heslov sceglie, in questo film delirante, la seconda via, destrutturando i miti della retorica guerrafondaia (efficienza militare, eroismo, machismo, inevitabilità dell'uso della violenza), ribaltati paradossalmente in un manifesto di fratellanza e amore per il prossimo. Dopo averlo fatto ridere di maldestri tentativi di attraversare muri, fantomatiche visioni a distanza, improbabili mosse letali e capre uccise con lo sguardo, lo spettatore è congedato con l'amarezza di una riflessione sull'America che avrebbe potuto essere e sulla pesante eredità morale della recenti guerre mediorientali.


Regia: Grant Heslov
Anno: 2009


Giudizio: ***