martedì 31 agosto 2010

Oltre le Regole - The Messanger


Il sergente Will (Ben Foster), tornato da poco dall'Iraq, ed il capitano Tony (Woody Harrelson) hanno il gravoso compito di comunicare la caduta dei soldati al fronte alle rispettive famiglie. All'apparenza incompatibili, i due stringono una sincera amicizia che li aiuta a confrontarsi con le proprie difficoltà personali: l'alcolismo di Tony e la sofferta relazione con l'ex-fidanzata Kelly (Jena Malone) per Will, il quale cerca intanto di costruire un nuovo rapporto, complesso e fragile, con Olivia (Samantha Morton).
Il regista debuttante Oren Moverman firma un intenso film anti-bellico (anche se non dichiaratamente) sull'invisibile guerra irachena (finalmente sottratta all'anestetica idealizzazione dei media): attinge, rielaborandolo con intelligenza, al repertorio classico dell'alienazione del reduce (ben codificato nella vasta filmografia post-Vietnam, da Il Cacciatore a Taxi Driver): la morte come destino comune per chi conosce gli orrori del fronte (fisica per i caduti, morale e psicologica per i sopravvissuti), l'inevitabilità di tornare cambiati nell'intimo e devastati nell'animo, l'incapacità di rinserirsi in una vita comunemente ordinaria, l'incomunicabilità del male, il senso di colpa di chi si è salvato. Ma ciò che arricchisce il film di una dimensione più profonda, caricandolo di emotività senza però scadere nei patetismi, è quell'entrare, un po'intrusivo ma toccante, nell'intimità dolorosa di famiglie sconvolte dalla tragedia, dipingendone con tratto garbato e rispettoso la galleria di reazioni: dalla disperazione cieca, al rifiuto rabbioso, dall'incredulità sgomenta, al cordoglio attonito. E'un mondo di anziani, donne e bambini che la mancanza di uomini fa sembrare più indifeso e vulnerabile e che si trova a dover elaborare, con le proprie sole forze, lo sconcerto traumatico del lutto. La forza rivelatoria di alcune sequenze (su tutte, quella disturbante e terribile dell'irruzione dei due, ubriachi e malridotti, al matrimonio di Kelly) e la pregnanza dei dialoghi, la verosimiglianza psicologica e le rarefatte scaglie di ironia ne fanno un film dall'enorme potenziale, purtroppo in (piccola) parte tradito da qualche eccesso di scrittura (il padre irascibile e stizzoso che va a chiedere scusa, il finale vagamente consolatorio), probabilmente inserito per venire incontro ai gusti del grande pubblico. Ma il risultato finale è comunque di invidiabile riuscita. Sceneggiatura premiata a Berlino, Harrelson è stato candidato, come attore non protagonista, sia all'Oscar che al Golden Globe.

"Senza quel finale troppo risolto e qualche eccesso d'enfasi, infatti, il film sarebbe stato tragicamente perfetto" (Boris Sollazzo, cinematografo.it)


Regia: Oren Moverman
Anno: 2009



Giudizio: ***1/2

lunedì 30 agosto 2010

L'Uomo Nell'Ombra



Un ghost writer (un Ewan McGregor in buona forma) viene assunto dallo staff di Adam Lang (Pierce Brosnan), ex primo ministro inglese (evidente alter ego di Blair), per portarne a termine la biografia, in sostituzione del precedessore morto in circostanze non troppo chiare. Man mano che il lavoro procede emergono verità scottanti (connivenze con la CIA, illegalità compiute nell'ambito della lotta al terrorismo e per cui Lang viene inquisito dalla Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja). Finale con almeno tre colpi di scena.
Polanski si ispira ad un romanzo di Ed Harris (Il ghostwriter, appunto), coautore della sceneggiatura, e gira un thriller a sfondo complottistico, estremamente classico e dalle atmosfere tese. C'è il tema dell'intrigo internazionale, la polemica politica che tira in ballo il supposto asservimento del governo britannico agli interessi USA nonché le violazioni dei diritti umani compiute dall'amministrazione americana, c'è anche il tema apertamente autobiografico del vivere in uno stato di persecuzione, di costrizione all'autoesilio in un non-luogo, ad un'esistenza precaria, da "ombra" (Polanski ha girato il film nel pieno delle recenti vicissitudini giudiziarie). Oltre questo, però, c'è poco altro: il clima di tensione, pure attentamente costruito, traballa a fronte di sbavature nella sceneggiatura che riducono credibilità e realismo, il finale vorrebbe essere sorprendente, ma in realtà appare piuttosto prevedibile. Neppure la caratterizzazione dei personaggi colpisce, pur nella loro ambivalenza e amibiguità di fondo. E quanto all'ambientazione gotica (un'isola su cui sembra piovere sempre), ha un po'troppo di già visto (guardare il quasi contemporaneo Shutter Island per credere). Resta l'impressione, al di là dei riconoscimenti (fra cui spicca l'Orso d'Argento vinto a Berlino), di un film "irrisolto, tra le sue evidenti ambizioni politiche, autoriali e (auto)biografiche e l'involontaria e gravosa caduta nel genere [...] anzi nel generico." (Federico Pontiggia, cinematografo.it).


Un film hitchcockiano senza se e senza ma. Per i poco sedotti da intrighi internazionali naif e da un cinema dei padri che non si osa toccare, la definizione non è per forza un complimento. (Alessio Guzzano, City)



Regia: Roman Polanski
Anno: 2010


Giudizio: **1/2

domenica 29 agosto 2010

Mulholland Drive


Strani fatti coinvolgono due giovani: Rita (Laura Helena Harring) è sopravvissuta ad un incidente stradale, ma ha perso la memoria, Betty (una bravissima Naomi Watts) l’aiuta a recuperarla. Nel finale tutto viene sconvolto. E’ difficile sintetizzare in maniera efficace un film intrinsecamente non lineare, che sfugge alla classificazione dei generi (mescolandone diversi, dal noir all’horror, dal grottesco al paranormale stile Twin Peaks) in cui i percorsi narrativi a volte si intrecciano, a volte non conducono a nulla, altre volte ancora si rovesciano o si invertono. Lynch vuole raccontare un viaggio nella psiche umana e lo fa adottando il linguaggio del subconscio, del sommerso: destruttura la logica classica (principi di identità, non contraddizione, ecc.), opta per una razionalità più lasca, che ai nessi causali preferisce sovente le associazioni analogiche, i salti spazio-temporali, l’allucinazione. La prima parte è secondo molti un sogno del personaggio Diane (ancora la Watts), come chiarirebbe la seconda (forse un po’ troppo frettolosamente, probabilmente per via delle traversie produttive), ma per quanto possa suonare credibile, anche questa interpretazione, come del resto tutte le altre, conserva un’ineliminabile arbitrarietà: non potrebbe essere altrimenti per un film che mostra, ma non spiega, muovendosi su un terreno surreale che non richiede né prevede analisi. Se riesce a farsi rapire della immagini, ad abbandonarsi al loro flusso, alle divagazioni, al nonsense, lo spettatore vive un'esperienza visionaria irripetibile, che lo interroga sul tema dell’identità personale e lo fa avventurare nel profondo dell’animo, nel rimosso, nell’onirico, in quell'abisso di eros e thanatos represso ma presente in ogni essere umano. Amarissima la riflessione su Hollywood e l’industria dello spettacolo in generale, fabbrica di sogni che promette ed illude, ma cela sotto la facciata accattivante lo squallore di un ambiente marcio e miserabile. Di Badalamenti la colonna sonora, conturbante ed inquieta. Doveva essere la prima puntata di un serie televisiva, ma, rifiutata dalla ABC, Lynch l’ha riadattata per il grande schermo. Premiato a Cannes e candidato agli Oscar. Snobistico? Intellettualistico? Superflua presa in giro dello spettatore? Forse, ma difficile trovare un altro film che lasci la stessa voglia di una seconda visione.



Anno: 2001
Regia: David Lynch



Giudizio: ****

sabato 28 agosto 2010

Gangs of New York


In una New York di metà Ottocento, dominata da bande che si contendono il controllo dei quartieri con scontri di inaudita ferocia, governata da autorità corrotte e da un’oligarchia meschina, crocevia di migranti (irlandesi, cinesi, neri, ecc.), Amsterdam (un Leonardo Di Caprio un po’in ombra), di origini cattoliche irlandesi, cerca di entrare nelle grazie di Bill “il Macellaio” (un indimenticabile Daniel Day-Lewis, sopra le righe), capobanda nativo americano e protestante, temuto e rispettato, che sedici anni prima gli aveva ucciso il padre e di cui vuole vendicarsi. Ci riuscirà. Sullo sfondo, la Guerra di Secessione in atto ed i Draft Riots che scoppiarono in risposta all’imposizione della leva obbligatoria nel 1863.
Scorsese dirige un colossal sulle origini della società americana, di cui, con toni che vorrebbe epici, mostra le radici sanguinose, affondate in un caos informe governato dalla brutalità della legge del più forte, in un miscuglio razziale di brulicante umanità in balia del totale disordine morale (salvo una primitiva nozione di onore) e dell’uso della violenza come unico strumento per il faticoso mantenimento dell’ordine sociale. Dove riesce a tener fede e forse perfino a superare le aspettative è nella ricostruzione storica e scenografica (sbalorditivo il set allestito a Cinecittà, così come la ricchezza e l'accuratezza dei costumi), tanto che il patrimonio visivo-figurativo è probabilmente la dote migliore del film, un vero piacere estetico per lo sguardo. Meno convincente è la sceneggiatura, che delinea una trama dagli schematismi un po’ scontati (il buono contro il cattivo, una donna contesa, un piccolo esercito di aiutanti ed oppositori, la caduta e la riscossa del buono, la sconfitta finale del cattivo) e l’approfondimento psicologico che non va troppo oltre la consueta dinamica dell’amore/odio fra i due contendenti, legati da un rapporto che ricorda il legame paterno. Buona la regia (d’altra parte la firma ne è indubitabile garanzia), da sottolineare alcune sequenze (specialmente la convergenza nel finale fra lo scontro tra gang e la repressione violenta della sommossa, molto ben girata e montata) e certe figure (Bill “il Macellaio” su tutte, icona memorabile di un’intera nazione), ma non bastano a reggere quasi tre ore di un film che, seppur con picchi di grande qualità, sembra dimenarsi a lungo alla ricerca, con scarso successo, di una direzione da prendere in maniera decisa, di un senso compiuto, di una dimensione autenticamente originale ed autoriale. Le 11 candidature agli Oscar senza nemmeno una statuetta portata a casa sfiorano il record negativo.



Regia: Martin Scorsese
Anno: 2002



Giudizio: ***

Il Vento Che Accarezza l'Erba


La storia della lotta per l’indipendenza nell’Irlanda degli anni ’20 (ai tempi della nascita dell’IRA, braccio armato del partito Sinn Fein), attraverso le vicende dei fratelli Damien (Cillian Murphy) e Teddy (Padraic Delaney) O'Donovan, dapprima uniti contro il nemico inglese e poi tragicamente l’uno conto l’altro allorché la firma di un controverso trattato di pace gettò il paese nella guerra civile.
Ken Loach, regista di posizioni notoriamente filo-marxiste, dirige con stile convenzionale ma intenso un dramma storico, fortemente politico, che utilizza il passato per schierarsi su temi di attualità geopolitica (la lotta al terrorismo, il neocolonialismo): dinanzi alle spregiudicatezza della violenza imperialista la resistenza armata è una esigenza morale, un dovere etico, questa la sua tesi. Il film eccelle nell’approfondimento delle motivazioni anche sociali dei ribelli (che anelano non solo alla libertà, ma anche alla giustizia, ad un modello di società più equo e solidale), nell’indagare i dilemmi morali classici in cui si imbatte chi aspira a cambiare il mondo (quali mezzi giustifica il fine? Fino a che punto si devono sacrificare le proprie convinzioni morali alla causa? E’ preferibile un disincantato realismo incline al compromesso oppure un idealismo utopico ed intransigente?), nell'esaltare la drammaticità di alcune scene madri assai riuscite (l’esecuzione del giovane traditore, il confronto fra i due fratelli, la fucilazione di Demien e l’annuncio della sua morte all’amata Sinead, interpretata da Orla Fitzgerald). Ma il suo limite è probabilmente nelle motivazioni prettamente militanti, nella radicalità (che dipinge gli occupanti inglesi come mostri di ferocia e disumanità), nella assolutezza della dimensione ideologica che preclude le altre, assottigliando forse lo spessore complessivo del film. Palma d’Oro a Cannes. Il titolo allude ad un verso di una vecchia canzone.


Regia: Ken Loach
Anno: 2006



Giudizio: ***1/2

martedì 10 agosto 2010

4 Mesi 3 Settimane 2 Giorni


Romania, 1987. La giovane Gabita (Laura Vasiliu) è rimasta incinta ed ha deciso di interrompere la gravidanza. Otilia (Anamaria Marinca), la ragazza con cui divide la stanza nella Casa dello Studente, si fa in quattro per assisterla: trova una camera d'albergo, racimola il denaro necessario, incontra il poco raccomandabile Mr.Bebe (Vlad Ivanov), che si occuperà di far abortire Gabita clandestinamente (allora era pratica illegale). Otilia arriverà perfino a concederglisi, pur di aiutare l'amica. E sarà ancora lei a doversi disfare del feto.
Sarebbe un errore credere che questo piccolo gioiello di Mungiu (Palma d'Oro a Cannes) sia prevalentemente un film sull'aborto. In parte lo è, naturalmente, ma al centro dell'attenzione non pone i complessi dilemmi morali implicati dal gesto. 4 Mesi 3 Settimane 2 Giorni è innanzitutto un film storico: ricostruisce, con grande cura dei dettagli, la vita e l'aspetto della Romania di Ceaucescu, le misere condizioni di vita delle classi popolari (ma anche il benessere contenuto del ceto medio), i sotterfugi del marcato nero, lo squallore degli ambienti, l'arretratezza socioeconomica; al tempo stesso, è un film politico, che pur indirettamente, parla del regime comunista, del clima di diffidenza, sospetto, paranoia e timore che si respirava fra le persone; ha a che fare anche con la condizione di oppressione della donna nella società rumena (tema oggi non meno attuale), la cui assoggettazione alla cultura maschilista è ben rappresentata dalla tremenda violenza psicologica che Gabita e Otilia subiscono, quando Mr.Bebe le costringe a prostituirglisi; infine, è, come dicevamo, anche un film sull'aborto, che Mungiu tratta con rispettoso distacco fino alla celebre, discussa e discutibile (ma non per questo sbagliata) inquadratura del feto espulso, le cui ben riconoscibili fattezze umane sono uno shock a cui Mungiu sottopone lo spettatore e con cui sembra prendere posizione.
L'impianto tematico tutt'altro che banale è supportato da una regia sapiente, attenta al particolare, alla scelta della giusta inquadratura (più statiche quelle negli interni, con angoli visuali di innegabile immediatezza ed efficacia, più dinamiche quelle che inseguono Otilia nei sui peregrinaggi attraverso la città, specialmente nella sequenza notturna). Ma dove Mungiu si supera è nella precisione della sceneggiatura, che funziona alla perfezione riuscendo a creare un crescendo di tensione, anche grazie a meccanismi propri del cinema thriller (ad esempio l'esteso uso del fuori campo), qui riadattati con maestria. L'esattezza dei dialoghi (che contribuiscono in modo decisivo alla resa naturalistica della messa in scena), la buona intepretazione degli attori (la Marinca su tutti), l'approfondimento piscologico sui personaggi completano il quadro, a dimostrare come anche un film (apparentemente) semplice e lineare sa lasciare il segno, se dietro c'è una mano d'autore.
Il titolo allude alla durata della gravidanza di Gabita, al momento dell'aborto.



Regia: Cristian Mungiu
Anno: 2007


Giudizio: ****

lunedì 9 agosto 2010

Il Vento Fa il Suo Giro


Philippe (Thierry Toscan), pastore francese, si trasferisce assieme alla famiglia ed al suo gregge di capre a Chersogno, piccolo paese alpino della Valle Maira (vicino Cuneo), ormai quasi interamente spopolato e di antica tradizione occitana. Conquistata la simpatia e l'amicizia di alcuni membri dell'amministrazione comunale, che vedono nell'arrivo di un giovane nucleo familiare un'occasione di rilancio per il paese, Philippe riesce ad ottenere, con il loro aiuto, una casa in affitto ed il permesso di pascolo nei terreni di alcuni compaesani. Presto, però, i nuovi venuti entrano in conflitto con il resto della cittadinanza e l'iniziale, benevola accoglienza si tramuta in diffidenza, astio e ritorsioni, fin quando Philippe, esasperato, non decide di lasciare per sempre Chersogno.
Lungometraggio d'esordio per il regista Giorgio Diritti, che ambienta nell realtà montanara del Basso Piemonte una storia di integrazione (fallita) fra un forestiero (per di più straniero) ed una comunità chiusa e rigidamente tradizionalista. La tematica di fondo è chiaramente quella del rifiuto della diversità e della paura dell'altro: il merito di Diritti è quello di aver saputo calare questo discorso in un contesto atipico, rifuggendo dagli stereotipi e dagli inevitabili luoghi comuni (e facili vittimismi) dell'immigrazione meridionale o extracomunitaria. L'effetto di questa scelta è lungimirante: evitare una facile semplificazione del problema all'equazione fra razzismo ed intolleranza. Diritti vuole andare più a fondo, rintracciare i meccanismi psicologici ed antropologici che determinano la reazione di rigetto, violenta ed inappellabile, da parte di un gruppo verso chi è percipito come portatore del nuovo, dell'ignoto e pertanto temibile. Con precisione mostra i meccanismi con cui l'ostentata fratellanza può divenire rapidamene indifferenza, poi invidia, cattiveria ed infine aperta ostilità. Le atmosfere montanare, quasi sempre grigie ed offuscate, contribuiscono a trasmettere un senso di angoscia che prelude al destino di morte (fisica nel senso di lenta estinzione e morale nel senso di rancorososa intransigenza) a cui la comuità occitana di Chersogno sceglie, più o meno inconsciamente, di condannarsi: è la metafora di una nazione che ha perso la capacità di affidarsi ai valori etici trasmessi dai padri ("Cosa siamo diventati?" si chiede il sindaco nel finale), guidata da una classe dirigente interessata ed ipocrita, e che, ormai incancrenita e miope, non riesce più a guardare al futuro, al cambiamento, a quell'anelito di libertà che nel film è rappresentato dalla delicata follia del matto del villaggio, ripreso sovente a simulare le movenze del volo (e che, simbolicamente, muore quando la famiglia di Philippe decide di partire). Di grande effetto la colonna sonora che sottolinea con efficacia le variabilità degli stati d'animo collettivi. I dialoghi fra Philippe e Fausto (Giovanni Foresti), con cui c'è un'iniziale ma breve intesa, lasciano a volte l'impressione di "un fondo didascalico un po' legnoso"(Dizionario dei Film Mereghetti), ma sono interessanti nella demistificazione dell'abusata retorica della tolleranza, formula sostituiva di una filosofia dell'uguaglianza più umanitaria e sincera. Finale mesto, ma senza rinunciare alla speranza.
Neanche a citarle, le solite difficoltà di produzione, distribuzione, ecc. a cui va puntualmente incontro il cinema italiano indipendente.


Regia: Giorgio Diritti
Anno: 2005


Giudizio: ***1/2

venerdì 6 agosto 2010

Perdona e Dimentica

Tre sorelle sono alle prese con i propri crucci esistenziali: Joy (Shirley Henderson), che si occupa della riabilitazione dei detenuti, ha sulla coscienza il suicidio dell'ex-fidanzato e dovrà presto far i conti anche con quello del marito, pervertito sessuale che non è riuscita a redimere; Trish (Allison Janney) cerca di ricostruirsi una vita e di tirare su i tre figli (la piccola Chloe, il tredicenne Timmy (Dylan Riley Snyder) alle prese com il suo bar mitzvah, una sorta di prima comunione ebraica, e lo studente universitario Billy (Ciaran Hinds)) avuti da un marito che è in carcere per pedofilia; Helen, scrittrice e sceneggiatrice di gran fama, è schiacciata dal peso del proprio stesso successo.
Todd Solondz, regista indipendente e coscienza critica del ceto medio americano, riprende i personaggi del precedente Happiness ed affronta i temi, citati con ripetività quasi ossessiva, del "perdonare" e del "dimenticare", quali possibili soluzioni ai drammi ed alle conflittualità del passato ed alla dolorosa tragicità del vissuto personale. Tuttavia la conclusione a cui sembra approdare è tutt'altro che rassicurante: entrambi sono meccanismi di rimozione, alternativi eppure complementari, diversi eppure strettamente connessi, che non conducono ad una vera accettazione critica e consapevole delle piccole e grandi mostruosità della vita: nessun personaggio sembra poter dimenticare (nè la famiglia di Trish l'orrore della pedofilia paterna, nè Joy il male fatto ai suoi compagni) e, soprattutto, nessuno sembra davvero poter perdonare, se non, con patetica mediocrità, se stesso. Quella ritratta è un America che attraversa tempi difficili (i metaforici "tempi di guerra" del titolo originale Life During Wartime), di grande disorientamento sia individuale che collettivo (ed in questo senso il film è fra i più politici del regista, come lui stesso ha riconosciuto, lambendo tematiche come l'insicurezza legata alla minaccia terroristica, il razzismo, l'omosessualità), tempi a cui pare incapace di escogitare risposte che non siano malcelate nevrosi, un'anestetica indifferenza od un inquietante abuso di psicofarmaci.
Superbamente Solondz riesce a sposare profondità dell'analisi psicologica, dirompenza ed asprezza dell'indagine socio-antropologica con un sarcasmo velenoso che colpisce al cuore le ipocrisie della media borghesia. Meno ineccepibile appare però la costruzione filmica, non tanto per qualche mancanza nella sceneggiatura (la vicenda della terza sorella, Helen, resta appena abbozzata e piuttosto avulsa), quanto per la assoluta preponderanza del dialogico sul visivo/narrativo: il film è una successione di conversazioni a due (scandite con l'uso insistito del controcampo) che lascia poco spazio a tutto il resto. Un modo di fare cinema che, personalmente, troviamo piuttosto riduttivo.



Regia: Todd Solondz
Anno: 2009


Giudizio: ***

mercoledì 4 agosto 2010

Gomorra



Basato sull'omonimo best-seller di Roberto Saviano, Gomorra è costruito sull'intreccio di più vicende, tutte strettamente legate all'universo camorristico ed ambientate per lo più nei quartieri malfamati del napoletano: un "portasoldi" che distribusce diarie alle famiglie degli affiliati morti o in galera, uno scugnizzo che cresce all'ombra del clan, due delinquentelli che sognano di diventare gangster, un sarto che cuce clandestinamente abiti d'alta moda contraffatti, un imprenditore ed il suo giovane collaboratore che operano nel settore dello smaltimento dei rifiuti nocivi e pericolosi. Sullo sfondo la guerra fratricida e sanguinosa fra le opposte fazioni degli scissionisti e dei fedeli alla famiglia Di Lauro.
La bravura di Garrone è innanzitutto quella di aver fuso le varie storie senza soluzione di continuità, presentandole a tutti gli effetti come diversi volti della medesima, onnipresente realtà: vuoi per l'effetto omogeneizzante del dialetto (a tratti tanto incomprensibile da richiedere i sottotitoli) e delle musiche neomelodiche napoletane, che fanno da trait d'union fra i diversi segmenti narrativi; vuoi per le atmosfere fosche di una Campania senza sole, che pure sono un'invariante; vuoi, infine, per la stessa fatale impressione di impotenza ed immutabilità, che ammanta ogni inquadratura, trasmettendo la sensazione di una Camorra che è ben più di un'organizzazione crimonosa, ma al tempo stesso istituto sociale sostitutivo dello Stato (colpevolmente assente), costume radicato, cultura inestirpabile (infarcita di falsi miti: denaro, droga, sesso, potere). Più precisamente, sono in verità tante le Camorre che Garrone (come già Saviano) ci raccontano: quella che recluta manovalanza pescando nella miseria dei quartieri popolari, la microcriminalità che campa di spaccio e rapine, la piccola imprenditoria che si muove all'ombra della protezione mafiosa e quella in giacca e cravatta, il volto "clean" da presentare al mondo esterno. Tante Camorre, ma un solo destino: l'impossibilità di sfuggire a meccanismi che hanno smesso da tempo di essere, per molti, una scelta.
Da apprezzare la regia asciutta, quasi documentaristica, volta ad evitare ciò cha anche Saviano temeva: la mitizzazione epica di quella banalità del male che aveva tanto bene saputo descrivere nelle sue pagine. Recitato in parte con attori non professionisti presi sul posto: colpisce (e conferma la tesi del film) che ad oggi ben tre di loro siano stati successivamente arrestati. Il titolo rimanda alla città biblica, sinonimo di corruzione ed empietà. Premiato a Cannes.

Garrone sa azzerare l'iconografia del mafia movie, escludere le probabili ascendenze scorsesiane, per regalarci una visione inedita, una filmologia simbiotica all'antropologia in rapida evoluzione dell'universo camorra (Federico Pontiggia, Cinematografo.it)


Regia: Matteo Garrone
Anno: 2008


Giudizio: ****

martedì 3 agosto 2010

L'Uomo Che Non C'Era


California, fine anni '40: il taciturno barbiere Ed Crane (Billy Bob Thornton) aspira ad una nuova vita e decide di cogliere l'occasione di un investimento nel settore del lavaggio a secco, propostogli da un affarista truffaldino (Jon Polito). Per trovare i soldi necessari ricatta Big Dave (James Gandolfini), datore di lavoro ed amante di sua moglie Doris (Frances McDormand). I risvolti sono drammatici: scoperto, uccide Dave, ma dell'omicidio viene accusata Doris, che si suiciderà in carcere, mentre suo fratello Frank (Michael Badalucco) rischia di perdere il negozio riscattato con i sacrifici di una vita per pagarle le spese legali. Accusato a sua volta di un assassinio che non ha commesso, Ed finisce sulla sedia elettrica.
Quello dei Coen vuole essere un omaggio al genere noir anni '50, di cui riproduce con raffinata accuratezza tutti i topoi caratteristici (fotografia ingrigita dalle penombre, atmosfere cupe e fumose, sigarette e bicchieri di whisky in abbondanza, sequenze in carcere, tribunale, ecc.) e di cui riprende i personaggi più classici (l'avvocato, l'investigatore privato, la coppia di sbirri, ecc.), non senza venature ironiche, a tratti irresistibili (il dialogo fra Ed ed i poliziotti che gli annunciano l'arresto della moglie), a tratti più sofisticate (la goffa enunciazione del principio di indeterminazione di Heisenberg). All'interno del film di genere, opportunamente rivisitato, sono calati i temi classici della filmografia coeniana: l'incalcolabilità delle conseguenze delle azioni umane, il pessimismo esistenziale che pone tutti i personaggi in un vicolo cieco da cui non vi è via di fuga se non tragica, la fallacia delle illusioni e l'immoralità dilagante. Ficcanti ed attuali le bordate al sistema giudiziario, più spettacolare ed autoreferente che equo. Ne risulta un neo-noir interessante e piacevole, almeno per tre quarti, salvo poi perdere slancio per via di una sceneggiatura che nel finale annaspa (dall'incidente in auto in poi) e lasciare complessivamente la sensazione che in L'uomo che non c'era vi sia forse più stile (sì, ma che stile!) che sostanza.
Fa parte del cast, con un ruolo minore, una giovanissima Scarlett Johansson.



Regia: Joel ed Ethan Coen
Anno: 2001


Giudizio: ***

domenica 1 agosto 2010

Buongiorno, Notte


La storia del rapimento e della prigionia dell'allora Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro (interpretato da un buon Roberto Herlitzka), avvenuto nel 1978 ad opera delle Brigate Rosse. In particolare, la vicenda si svolge principalmente nel covo in cui Moro è tenuto recluso e, oltre allo statista, i personaggi principali sono i terroristi che gli fecero da carcerieri. Il film si conclude con la decisione di uccidere Moro ed i preparativi all'esecuzione.
Bellocchio affronta il caso più eclatante, controverso e doloroso degli Anni di Piombo e lo fa con equilibrio di vedute: se non mostra reticenze nell'additare la classe politica del tempo come corresponsabile morale dell'esito tragico del rapimento (mettendo, per altro, l'accusa direttamente in bocca a Moro, con voluto effetto amplificatorio), dall'altro non mostra alcuna indulgenza nè forma di giustificazionismo nei confronti dei brigatisti, assimilando al contrario i loro metodi a quelli del fascismo, nel convincente ed emozionante parallelo fra le lettere di Moro alla famiglia e quelle scritte dai partigiani prigioneri durante la guerra. Tuttavia, pur fermo nella condanna storica del terrorismo eversivo di sinistra, non demonizza i personaggi, ma ne mostra anche il lato più umano, il momento del dubbio, della pietà, della paura. E se Mariano (Luigi Lo Cascio) rappresenta la componte brigatista più vuotamente ideologica, Chiara (Maya Sansa) ne è invece la parte più autenticamente idealista, più spontanea nell'adesione ai valori di giustizia ed uguaglianza che affondano le radici nei fermenti morali della Resistenza e pertanto più critica e consapevole della deriva assunta dal movimento, ormai lontano dalla gente, incapace di riconoscersi nell'inutilità della sua violenza e nei suoi proclami desolatamente sterili. Altro merito di Bellocchio è poi l'aver saputo ricostruire il clima di incomunicabilità, incomprensione, chiusura ed ostilità che separava in quegli anni le generazioni e le parti politiche, restituendo l'immagine di un'Italia scissa fra posizioni irriducibili, fra fazioni non in grado di comprendere l'una il linguaggio ed i valori dell'altra: solo nei sogni di Chiara, nella trasfigurazione onirica di una realtà storica altrimenti indecifrabile, si trova la conciliazioni degli opposti che la società e la politica non vollero o non seppero trovare, la suggestiva visione, pur fuggevole e dichiaratamente illusoria, di un altro mondo possibile, in cui Moro potesse tornare a camminare, vivo e libero, per la città.
Interessante la fusione di finzione ed immagini reali (qui più organica rispetto al successivo Vincere) e l'utilizzo delle musiche (Schubert, Pink Floyd) in chiave, forse fin troppo, enfatica.
Il titolo rimanda ad una poesia di Emily Dickinson.


Regia: Marco Bellocchio
Anno: 2003


Giudizio: ***1/2