giovedì 18 novembre 2010

Ferro 3


Un giovane (Hee Ja) entra di nascosto nelle case momentaneamente disabitate, vi trascorre del tempo come se ci abitasse (usa la doccia, cucina, dorme), fa ordine e pulizia, ripara gli oggetti rotti. Un giorno vi incontra per caso una ragazza maltrattata ed infelice, Sun-Hwa (Seung-yeon Lee), e la porta via con sè. Finisce nei guai con la giustizia, passa un periodo in carcere e quando ne esce ha imparato a muoversi con tale destrezza da essere invisibile: può così trasferirsi nella casa di Sun-Hwa dove i due vivono finalmente il proprio amore, all'insaputa del brutale compagno di lei.
Alla base di questo film sudcoreano vi è un'idea molto particolare, da cui la sceneggiatura prende forza: descrivere una figura insolita e poetica, un giovane che sceglie di muoversi in uno spazio impercettibile e vuoto (prima le case deserte, poi le ombre in cui si cela) per sfuggire alla bruttezza di un mondo ipocrita e violento, bugiardo e stupido, sadico ed indifferente (come emerge dai comportamenti dei diversi personaggi di contorno). Allo stesso modo adotta un silenzio irremovibile (non si sentirà mai la sua voce) come forma di comunicazione, più eloquente e romantica di parole vuote ed inutili (come quelle di chi gli sta attorno), limitandosi a sfogare con una mazza da golf (il ferro 3 del titolo) ed una pallina la propria rabbia esistenziale. In contrasto con la volgarità dei tempi, l'amore fra il giovane protagonista e la malinconica Sun-Hwa assume carattere di delicata leggerezza, come un piccolo miracolo che può schiudersi solo in quella zona di metaforico esilio interiore, in quell'area di confine ove ancora sopravvivono libertà e purezza. Una bella metafora che mette alla prova la fantasia dello spettatore quando nell'ultima parte il racconto, fin allora sostanzialmente verosimile, sfuma nella metafisica fantastica del sogno. Operazione apprezzabile quella di Kim Ki-Duk, premiata a Venezia, anche se tradita da qualche piccola caduta di stile (cosa c'entra la scena con cui il protagonista quasi ammazza fortuitamente una passante con la sua pallina da golf?) e dalla sensazione che il simbolismo sia un po' troppo forzatamente ricco, che si abbia a che fare con "un film-bottiglia, come quelli che si giravano tra gli anni 60 e i 70" dentro cui "si può infilare di tutto" (Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore)".


È una metafora che nel corso di un'ora e mezza si dipana coniugando in una rara sintesi leggerezza e profondità (Tullio Kezich, Il Corriere della Sera)



Regia: Kim Ki-Duk
Anno: 2004


Giudizio: ***1/2

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