lunedì 28 giugno 2010

Lourdes



La giovane Christine (Sylvie Testud), affetta da sclerosi a placche e completamente paralizzata, partecipa ad un pellegrinaggio di gruppo al santuario di Lourdes, più per distrarsi che per reale devozione. Man mano che prende parte alle cerimonie rituali previste durante il soggiorno, sogni premonitori annunciano il prodigio, fin quando il miracolo si compie (o è solo una fase di remissione della malattia?) e Christine riprende a camminare.
La trama apparentemente semplice cela un film complesso ed enigmatico. La Hausner persegue vari intenti, primo fra i quali ritrarre, col distacco di una placida ironia, la mercificazione del culto, il cattivo gusto del kitsch (i negozi di souvenir, le stautine della Madonna, il premio per il "miglior pellegrino", la foto di gruppo, il pacchetto viaggio che comprende feste e gite organizzate), ma anche il misticismo pagano di chi non coglie la dimensione spirituale dell'esperienza ("cosa bisogna fare esattamente" per essere guariti, chiede un'anziana signora), la miseria morale di chi malcela l'invidia per la miracolata, lo scetticismo dei volontari e degli stessi religiosi, nessuno dei quali, al di là delle preconfezionate risposte di circostanza, sembra davvero credere in qualcosa, tantomeno nei miracoli. Su un diverso piano, mostra la solitudine degli infermi, la loro quotidiana rinuncia alla normalità, il bisogno di calore umano che stride con la superficialità svampita delle accompagnatrici, più attente alla ricerca di un flirt o di un divertimento serale che preoccupate di offrire cure e sollievo ai bisognosi. Tanto che il vero male, sembra forse essere il messaggio, è quello interiore e la felicità (come cantano Albano e Romina nella canzone che accompagna la sequenza finale) va ricercata nelle semplicità, nell'apertura al prossimo, nella capacità di accettare la propria condizione e di godere dei fugaci attimi di gioia che la vita offre, piuttosto che nell'imponderabilità di un atto miracoloso. Il finale resta comunque aperto ed immune da schematizzazioni e semplicismi.
Lo stile della Hausner è volutamente scarno, minimalista, essenziale eppure capace di riprodurre fedelmente le atmosfere religiosamente comunitarie (molte, non per caso, le sequenze corali) di un luogo di pellegrinaggio e preghiera. La sceneggiatura, fatta più di vuoti che di pieni, più di silenzi che di parole, conferisce staticità (accentuata dalle inquadrature) ad un film che "con un senso del quadro che ricorda Kaurismaki, impagina i personaggi come fossero i figuranti di una serie di tableaux vivants" (Luca Malavasi, Cineforum). Tipico caso di film dalla fruizione non immediata, difficile da giudicare, osannato dalla critica (fin troppo), ma misconosciuto dai più. Interessante e singolare la vittoria a Venezia sia del premio Signis, conferito dall'Organizzazione Cattolica Internazionale per il Cinema, sia il premo Brian, assegnato dall'Unione Atei e Agnostici Razionalisti.

Ogni scena corrisponde ad un quadro fisso [...], ogni azione è inserita sapientemente in un'armonia di geometrie e colori che gioca su contrasto e opposizione. (Nicoletta Dose, mymovies.it)


Regia: Jessica Hausner
Anno: 2009


Giudizio: ***

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